tracce di storia del pensiero educativo: 3.L’ETA’ ELLENISTICO-ROMANA: UNA NUOVA VISIONE DEL MONDO

  1. L’ETA’ ELLENISTICO-ROMANA: UNA NUOVA VISIONE DEL MONDO

 

Sotto il nome di “ellenismo” o “età ellenistica” consideriamo quel periodo di tempo che intercorre tra la morte di Alessandro Magno (323 a.c.) e la chiusura della scuola filosofica di Atene da parte dell’imperatore cristiano d’oriente Giustiniano I (529 d.c.). Più precisamente, potremmo suddividere questi ottocento anni circa di storia nel periodo alessandrino e nel periodo ellenistico-romano:

  • – il periodo alessandrino è quello della diffusione della cultura greca nel mondo allora conosciuto; è l’epoca immediatamente successiva alle grandi scuole filosofiche di Atene, un’epoca in cui si spezzano i confini della polis, si diffonde universalmente il sapere, prendono vigore nuovi centri culturali (non più solo Atene, ma anche Alessandria, Pergamo, Antiochia e Smirne); è l’epoca della fondazione delle nuove scuole di pensiero: lo Scetticismo, l’Epicureismo, lo Stoicismo. È l’epoca in cui Roma incomincia ad imporsi nel mondo. Questo periodo si chiude con la conquista romana della Grecia (146 a.c.).
  • – il periodo ellenistico-romano comprende l’esplosione del potere romano, la diffusione delle scuole ellenistiche proprio nell’impero romano e la rivoluzione culturale-religiosa operata dal cristianesimo, l’istituzione della patristica, la divisione dell’impero romano in quello d’occidente e in quello d’oriente, il riconoscimento ufficiale della religione cristiana, il graduale formarsi di nuovi imperi e le diverse contaminazioni sociali e culturali.

La crisi della polis è stato un processo storico molto lungo cui hanno contribuito diversi fattori di varia natura: il crollo dell’artigianato, l’indebitamento delle classi medie, la rivalità tra i nobili, gli spostamenti di masse di persone in cerca di nuovi sbocchi di lavoro e di esistenza lungo le vie dell’oriente unificato sotto l’impero macedone da Alessandro. Le azioni del giovane imperatore permettono l’affermarsi di nuovi mercati e stimolano nuovi investimenti che portano alla fondazione di grandi centri culturali, prima su tutti Alessandria d’Egitto, governata da Tolomeo I, dove viene costruito il Museo: un’accademia di scienze (vicina al tempio delle Muse, da cui il nome) che ospita la più grande biblioteca del mondo di allora e dove si riuniscono i più grandi ricercatori scientifici del tempo per svolgere i loro studi e le loro ricerche. Atene però non perde il suo primato filosofico, anzi le viene universalmente riconosciuta questa caratteristica che l’avrebbe resa famosa nei secoli; ad Alessandria e a Pergamo predominano gli interessi legati alle scienze naturali e alla conservazione del materiale bibliotecario, mentre coloro che sono interessati ad approfondire gli studi su questo o quel pensatore trovano ad Atene le scuole portate avanti dai successori dei grandi filosofi: i platonici e gli aristotelici, gli eredi dell’esperienza socratica (i cinici), e anche seguaci di nuove correnti di pensiero. A questo proposito, va detto che la storia culturale che va dal 323 a.c. (anno della morte di Alessandro) al 31 a.c. (quando Ottaviano sconfisse Marco Antonio nella battaglia di Azio) – storia segnata dalla rottura del vincolo sociale e morale che legava l’individuo alla polis e dal cambiamento delle dimensioni della vita politica, per cui gli intellettuali e i cittadini iniziano a varcare i confini delle città-stato per dare vita al cosmopolitismo – è contrassegnata appunto dalla nascita e dalla diffusione delle tre scuole di pensiero che caratterizzano l’Ellenismo e che occupano una posizione di rilievo nella filosofia antica: lo scetticismo, l’epicureismo e lo stoicismo . Prima di approfondire queste correnti, però, prendiamo in considerazione alcuni aspetti inerenti lo sviluppo scientifico di questo periodo:

  • Archimede di Siracusa (278-212 a.c.), il più grande matematico dell’antichità scopre le leggi dell’idrostatica e il principio del peso specifico dei corpi; soggiorna a lungo ad Alessandria e inventa delle macchine da guerra poi utilizzate dall’esercito di Siracusa per difendersi dall’assedio dei Romani. Scrive il libro Sui teoremi meccanici nel quale considera la possibilità di risolvere i problemi matematici con le leggi della meccanica, cioè ricorrendo all’esperimento, pur non ritenendo quest’ultimo esauriente se non supportato da teorie geometriche.
  • – A questo proposito, cento anni prima Euclide (330-260 a.c.) aveva dato organicità e consequenzialità logica a tutto il sapere matematico nei suoi tredici libri di Elementi di geometria. Negli stessi anni, Aristarco di Samo (310-230 a.c.) ipotizzava che la Terra non solo ruotasse intorno al sole, ma anche intorno al proprio asse.
  • – In campo medico, Ippocrate di Cos (460-370 a.c.) dimostra che nessuna malattia ha origine divina, anzi: i malanni hanno tutti una loro struttura e caratteristiche proprie e pertanto possono essere soppesati e risolti con causa razionale. Egli diventa immediatamente una celebrità (tutt’oggi i medici sono sottoposti al giuramento di Ippocrate…).

Per quanto riguarda la storia del pensiero, Antistene (450-360 a.c.) fonda ad Atene la scuola cinica, riservata a chi non è ateniese per discendenza di stirpe. I cinici ritengono che l’uomo saggio debba essere un cosmopolita, un cittadino del mondo per il quale ogni luogo possiede lo stesso valore degli altri: perciò non aveva alcun senso l’assetto politico della polis ateniese. L’uomo saggio è colui che pratica la virtù come stile e scopo dell’esistenza e della morale: è libero dalla schiavitù delle passioni e da bisogni materiali, non gli servono  leggi esterne, è in grado di limitare le proprie esigenze al sostentamento corporeo più parco e autonomo possibile. Questa stessa critica sociale e la teorizzazione dell’ideale del saggio sono portati avanti dal successore di Antistene, Diogene (400-325 a.c.).

 

3.1 Lo Scetticismo

Scuola di pensiero nata nel III sec a.c. e protrattasi vino al II sec. d.c., lo Scetticismo viene fondato da Pirrone di Elide (365-275 a.c.), il quale afferma che di fronte alla varietà delle risposte circa la natura delle cose e del caratteristico relazionarsi degli uomini verso esse nel campo dei comportamenti, si debba prima di tutto analizzare gli strumenti conoscitivi umani per accertare quale tipo di sapere essi sono in grado di offrire. Ogni argomento è sempre controbilanciato da un altro che lo confuta, quindi nessuna teoria che riguarda l’essenza delle cose può in alcun modo attribuirsi la verità del giudizio; ciò che fa la differenza è il modo di ciascuno di rapportarsi alla realtà elaborandola con l’intelletto. La filosofia è ricerca della felicità e come tale deve mettere l’uomo nella condizione di agire, come già per i cinici, secondo virtù. Per essere virtuosi, continuava Pirrone, è necessario fare epochè, ossia sospendere il giudizio, predisponendosi ad un atteggiamento imperturbabile nei confronti della realtà che (atarassia).

Figure di spicco della scepsi sono Agrippa (I sec. d.c.), Arcesilao (316-241 a.c.), Carneade (214-129 a.c.), e Sesto Empirico (II sec. d.c.), medico quest’ultimo che ha affermato che le rappresentazioni sensibili portano alla verità più che non l’intelletto, il quale, perso in trame complicate, finisce per essere un ingannatore.

 

3.2 L’Epicureismo

La “filosofia del Giardino” (nome derivato dal luogo in cui trovò sede) ha una notevole ripercussione sull’Atene della crisi politica e sociale, grazie al suo fondatore Epicuro (341-270 a.c.): egli fonda una scuola aperta a tutti gli strati sociali emarginati, agli schiavi e alle donne, di impostazione antiaristocratica e con l’intento di denunciare l’inutilità della politica in atto che divideva ancora i nobili dal resto del mondo. Epicuro viene diffamato, denigrato e accusato di ogni possibile depravazione dalla classe governante; ma in realtà egli semplicemente insegna la gioia di vivere. Scrive moltissimo, sia saggi che lettere (purtroppo la maggior parte di quella produzione è andata perduta), predicando che tutti gli esseri viventi vogliono soltanto fuggire il dolore e godere di tutto ciò che è gradevole e piacevole. Crea perciò una filosofia imperniata sulla ricerca del piacere (hedonè in greco, voluptas in latino), non volta però al piacere dei dissipati, ma all’assenza di perturbazioni dell’anima. Questo modo di pensare è considerato una minaccia dai governanti dell’epoca soprattutto perché:

  • – mette in pericolo la validità della religione (considerata un sistema di credenze che serve alla classe dominante per spiegare il mondo e per sottomettere i deboli);
  • – considera reale soltanto ciò che è corporeo (Epicuro qui riprende le idee atomistiche di Democrito, secondo cui anche l’anima è fatta di atomi sottili);
  • – è volto ad eliminare il timore della morte (quando il corpo si dissolve anche l’anima si disperde): ogni bene e ogni male dipendono da ciò che sentiamo, quindi quando noi ci siamo la morte non c’è e quando ci sarà la morte non ci saremo più noi;
  • – considera lo Stato come qualcosa di estraneo all’individuo, perché retto da leggi che non sono per nulla assolute, ma che anzi cambiano a seconda delle circostanze (perciò lo Stato appartiene all’ordine di ciò che muta, quell’ambito da cui la saggezza-imperturbabilità deve staccarsi).

 

3.3 Lo Stoicismo

Fin dall’inizio la scuola stoica appare come un luogo di contaminazioni culturali di origine lontana dalla Grecia; vi affluiscono uomini di ogni ceto sociale (non però donne e schiavi) e prende il nome dal portico variopinto (stoà poikìle) sotto le cui arcate il fondatore (Zenone di Cizio, 335-263 a.c.) tiene le sue lezioni. Secondo gli stoici, il giusto è per natura e non per regola, perciò il sapiente potrà e dovrà anche far politica e legiferare, in modo da educare gli altri: tant’è vero che a Roma, come vedremo, uomini di grande rilievo culturale e politico quali Cicerone, Seneca e l’imperatore Marco Aurelio sono stoici.

Lo Stoicismo si fonda sul logos cosmico quale principio naturale e materiale e anima del mondo: con il linguaggio (lektòn, discorso pronunciato) l’uomo può esprimere il suo rapporto col mondo – proprio perché il linguaggio stesso è parte della natura e perciò opera del logos. Il cosmo, il mondo naturale, è considerato un insieme di cicli che si susseguono all’infinito, ma che sono posti da Dio provvidenzialmente in modo che ogni volta risulti un cosmo perfetto. Il Dio stoico è qualcosa di personale e impersonale insieme, presiede al mondo creato con atti di provvidenza e di amore, premia i buoni e punisce i malvagi; nella concezione stoica, gli dei tradizionali e le forme esteriori del culto possono al massimo essere solo una specie di simbolo del Dio-logos originario e per certi aspetti la religione stoica potè dirsi concorrenziale a quella cristiana degli inizi.

Chi è in grado con scienza filosofica di capire gli interventi di Dio, saprà come comportarsi nella vita quotidiana: la teologia stoica è fortemente funzionale all’etica, perché l’anima (pnèuma, soffio vitale che proviene dall’anima del mondo) collega l’uomo alla natura e al cosmo universale; quindi l’obiettivo etico dovrà essere una vita conforme a natura seguendo due semplici regole: 1. appurare quale natura ad ognuno è riservata dalle leggi dell’universo e 2. seguire all’interno di quest’ambito il bene e la virtù.

Da questi principi deriva una filosofia pratica adatta a tutti gli usi e vivibile all’interno dei più disparati contesti storici e sociali (anche se la filosofia stoica ha di fatto grande diffusione soprattutto tra gli intellettuali di alto ceto): in ogni situazione l’uomo saggio avrebbe saputo essere libero e non legato passionalmente. Gli stoici sottolineano l’importanza dell’educazione: le potenzialità iniziali di un uomo sono tali che egli, mediante una applicazione rigorosa fatta di conoscenze logiche corrispondenti ad azioni convenienti, è in grado di acquisire una disposizione ad agire in totale accordo con l’ordine morale delle cose. In questo senso la virtù (il fine della natura umana) costituisce l’intero della felicità (eudaimonìa) e del benessere.

 

3.4 Roma dalla cultura repubblicana a quella imperiale

Il contatto di Roma con la cultura greco-ellenistica avviene come conseguenza diretta della presenza politica e militare romana in oriente; Polibio, storico greco, è tra i deportati della terza guerra macedone (168 a.c.): egli familiarizza con l’ambiente aristocratico, in particolare con gli Scipioni, e descrive nei 40 libri delle Storie le vicende della nuova potenza mondiale. Nel 155 a.c. giunge a Roma il già citato scettico Carneade, membro di una delegazione diplomatica ateniese, il quale tiene delle lezioni e delle conferenze che suscitano un vivo interesse da parte dei giovani intellettuali; le sue idee, moderne e cosmopolite, appaiono rivoluzionarie agli occhi del potere aristocratico, al punto che Catone il Censore lo rimanda in Grecia, onde evitare sobillazioni contro il governo autoritario. Maggior fortuna ha invece lo stoico Panezio (180-110 a.c.), per come adatta lo stoicismo all’ideologia delle classi dominanti romane: concentra l’attenzione sui comportamenti pratici e sull’etica evitando di stancare gli uditori con discorsi sul logos e tutto ciò che ne conseguiva. Egli insegna a vivere secondo natura e a vivere secondo le propensione che natura ci ha dato: ciò permette ad ognuno di dedicarsi nel migliore dei modi al proprio ruolo familiare, sociale e politico; la società romana sta attraversando un periodo di contrasti (i contadini abbandonavano le campagne attratti dalla città in crescita e lasciavano privi di manodopera i piccoli proprietari terrieri) e quindi una filosofia come lo stoicismo di Panezio, che invita ciascuno a stare nel posto assegnatogli dalla natura, funziona perfettamente come strumento di stabilità. Paradossalmente, lo stoicismo a Roma diventa una filosofia di conservazione dello Stato.

Marco Tullio Cicerone (106-43 a.c.), di agiata famiglia patrizia che gli aveva permesso di studiare da giovane in Grecia, nelle sue opere filosofiche (tra cui ricordiamo: La Repubblica, La natura degli dei, Le Leggi, Discussioni tuscolane) dà un’interpretazione conciliante delle due scuole ateniesi da lui frequentate, l’Accademia e lo Stoicismo, e si mostra ostile nei confronti dell’Epicureismo per le sue aperture eccessive verso la plebe. Egli ritiene che la severa giustizia dello Stato – coincidendo la giustizia naturale con quella civile – altro non fa che assegnare a ciascuno ciò che per natura gli spetta. Ne consegue che, a tutti coloro che custodiscono e aiutano lo Stato, viene riservata la felicità eterna; religione e Stato così entrano quasi in simbiosi. Peccato che a Roma in quegli anni si susseguono scontri e vendette che certamente non aiutano la credibilità del senso religioso dello Stato; allora Cicerone ripiega, negli ultimi scritti, in una sorta di etica privata che difende l’individuo proteggendolo dal mondo esterno.

Sul versante epicureo, la voce più alta a Roma è quella di Lucrezio, il poeta che denuncia la falsità e la nullità di uomini che si contendono il potere col sangue dei cittadini; ad essi si contrappone la libertà individuale dell’uomo saggio, in cui risiedono i valori etici e razionali universali.

La rigenerazione della situazione politico-sociale di Roma sembra giungere negli anni della pax Augusti (27 a.c.- 14 d.c.), quando sotto l’impero di Ottaviano Augusto il riordinamento politico contribuisce al riavvicinamento della sfera privata col mondo pubblico. Voce di quest’epoca è il poeta Virgilio, autore dell’Eneide (opera in cui l’eroe, Enea, compie una missione divina nell’ottica di un nuovo regno di giustizia, Roma). In realtà, la politica di Augusto non risolve il problema della schiavitù, anzi: maggiori vantaggi vanno a coloro che riescono ad arricchirsi allargando i confini territoriali dell’Impero.

Chi esprime al meglio questa situazione e vive dentro di sé le contraddizioni dell’essere cittadino in un mondo sgradevole e contemporaneamente dell’essere portatore di saggezza, è Lucio Anneo Seneca (4 a.c.- 65 d.c.), spagnolo di origine, tutore di Nerone, predicatore dell’austerità stoica. Ne La vita contemplativa scrive che esistono due Stati: l’uno grande e veramente comune, che comprende gli dei e gli uomini, oggetto della contemplazione filosofica e l’altro che è lo Stato a cui ci ha iscritto la condizione della nostra nascita, ma la natura ci ha generati per ambedue i compiti: contemplare e agire. È dalla contemplazione che l’uomo saggio riceve la serenità, condizione che sorge dalla coscienza delle nostre virtù, dalla convinzione di appartenere non solo all’umanità, ma anche ad un universo dove non può spaventarci la fine della vita fisica perché dopo la morte ogni cosa tornerà a mescolarsi con i suoi elementi primi e ritornerà nel tutto.

L’imperatore filosofo Marco Aurelio (121-180), mite di carattere e universalmente riconosciuto come uomo saggio, nelle sue Memorie intraprende un viaggio dentro se stesso in cui cerca il significato universale della vita basandosi su riflessioni di carattere stoico con le quali può da un lato giustificare il suo ruolo pubblico come qualcosa che natura gli ha dato per preservare lo Stato da nemici interni ed esterni, dall’altro approfondire uno stile di vita dotato di buon senso e rettitudine e pronto ad affrontare qualsiasi avversità.

Questa idea di perfezione del ruolo all’interno dell’impero è comune a molti uomini di cultura del tempo, tra cui ricordiamo il geografo Strabone (63 a.c.- 19 d.c.), l’architetto Vitruvio (contemporaneo di Augusto), il naturalista Plinio il Vecchio e il retore Quintiliano (35-95) i cui codici sull’educazione dell’oratore erano ancora utilizzati nel Medioevo.

Generalmente, vi è la convinzione, sull’onda lunga dell’Ellenismo, di poter giungere al modello di un regno che rappresenti il miglior futuro possibile; convinzione radicalmente inserita nello stile di vita stoico e nell’emergente divulgazione del nuovo credo cristiano che sta poco per volta uscendo dai sotterranei.

 

3.5 L’avvento della cultura cristiana

La diffusa sfiducia nella ragione e l’instabilità politica (nonostante l’indiscussa egemonia di Roma, che però viveva di grossi contrasti interni), ha portato gli uomini, tra il II sec a.c. e il II sec. d.c., verso la ricerca di una verità rivelata che includesse Dio, il mondo, l’anima e il suo destino, attraverso un rapporto diretto con la divinità stessa, oppure attraverso la fede nella “parola sacralizzata”, il logos di maestri e profeti ispirati da Dio.

Tutta la religione e la cultura ebraica, per esempio, si erano sviluppate a partire da un insieme di dottrine rivelate, ispirate da un Dio unico e raccolte in un solo testo sacro, la Bibbia. Proprio nel II sec. a.c. ad Alessandria la Bibbia viene tradotta in greco da parte dei settanta traduttori, versione ancora oggi conosciuta come la versione dei Settanta. Inoltre, la Palestina è continuamente oggetto di invasioni e incursioni straniere (fino alla conquista romana del 65 a.c.) e ciò ha provocato la cosiddetta diaspora (la dispersione degli Ebrei nel mondo) che porta al sorgere di alcune importanti comunità ebraiche nelle città di cultura più note. Ad Alessandria l’ebraismo incontra l’ellenismo nell’opera di Filone di Alessandria (25 a.c.- 41 d.c.), il quale, utilizzando la tecnica dell’interpretazione allegorica, produce, partendo dalle Sacre Scritture, una teologia ben congegnata di ispirazione platonico-stoica in cui Dio si identifica con l’essere assoluto, al di sopra delle idee e del bene, realtà suprema di cui si può affermare l’esistenza, ma la cui essenza resta inconoscibile.

L’evento più importante avviene però nella Palestina sottomessa dal dominio romano: le folle riconoscono in Gesù di Nazareth il Messia da tempo atteso, sacrificato per una sorta di compromesso tra il Sinedrio (il ceto sacerdotale dominante in Israele) e il governatore romano (Pilato) che voleva evitare scontri interni in quella terra mai troppo tranquilla. Gesù, con l’appellativo biblico di Figlio dell’Uomo, riassume nella propria individuale realtà storica l’identità sacra e misteriosa dell’uomo cosmico, universale e divino annunciato dai profeti antichi. I Vangeli narrano le vicende della vita di Gesù, la sua predicazione, la sua morte e la sua risurrezione; questi scritti sono divisi in sinottici (Matteo, Marco, Luca) e quarto vangelo (Giovanni) e vengono redatti tra il 70 e il 100 d.c., quindi non immediatamente dopo la morte di Gesù; ma la forza del messaggio cristiano, fondato sullo scandalo della croce e sulla fede nel divino che si manifesta attraverso l’umiliazione e la morte divinizzando così l’umana sofferenza, rende possibile il rivelarsi di quel regno fondato sulla speranza e sull’amore universale che gli uomini da tempo desiderano. La lingua greca diventa funzionale alla diffusione di questa buona novella, soprattutto nel vangelo di Giovanni, quello a cui la filosofia cristiana rimanda tutta la sua speculazione, che affianca la nozione di logos a quella di archè (da cui la filosofia greca aveva tratto origine…) per affermare l’incarnazione del logos nella storia degli uomini: in questo modo i concetti astratti prendono una forma e una sostanza nella figura di Gesù Cristo. Chi più di tutti probabilmente contribuisce alla diffusione del Cristianesimo è l’apostolo Paolo (10-67) che nel 44 inizia la sua predicazione attraverso una serie notevole di viaggi missionari che lo portano ad Atene (dove tiene un famoso discorso testimoniato nel libro degli Atti degli Apostoli), a Corinto, a Tessalonica e a Roma, dove si pensa abbia incontrato Seneca e dove muore martire insieme all’apostolo Pietro sotto la persecuzione di Nerone del 67.

Le comunità cristiane intanto vanno formandosi in tutto l’impero romano, o perlomeno nei sui centri nevralgici, e vivono in base ai principi della fratellanza e della carità, mettendo in comune i loro beni e aiutando i più poveri; nonostante le persecuzioni, il Cristianesimo non smette di fiorire ed ampliarsi fino a quando l’editto di Costantino del 313 ne riconosce la legalità e permette il culto cristiano all’interno dell’Impero. Nel frattempo hanno già preso piede la Apologetica Cristiana e la Patristica, cioè gli scritti dei primi Padri della Chiesa che mirano a difendere la nuova fede dalle persecuzioni spiegando la dottrina e la verità della religione (potremmo dire che sono degli scritti giuridici e teologici insieme) e che diventano un punto di forza per le coscienze inquiete, insoddisfatte dall’insufficienza delle dottrine finora predicate e desiderose di una verità cui credere senza remore. Questi scritti che con forza vogliono rendere ragione alla fede rivelata nel Dio cristiano diventano così anche un elemento di rottura all’interno della stessa tradizione ellenistico-romana che cerca un equilibrio nel consenso fra opinioni e religioni diverse. Tra gli apologeti latini ricordiamo Tertulliano (160-240) che contesta la pretesa della ragione di giungere da sola ad una qualsiasi verità sull’essere: l’unica verità, e l’unica salvezza, consiste nella fede in Dio, che è Spirito nel significato stoico di respiro onnipotente che crea tutte le cose, compresa l’anima dell’uomo, corporea e immortale.

La nuova Chiesa tuttavia dove già fare i conti con le prime contraddizioni interne: l’eresia della gnosi, per esempio, parte da una filosofia del logos (detta anche: della conoscenza, che in greco si dice appunto gnosi) ed incorpora in essa una dottrina della salvezza, in un percorso esattamente opposto a quello del quarto Vangelo in cui, s’è detto, il logos è il principio, cioè Dio. Alla base di tutte le sette gnostiche vi è la convinzione che l’intelligenza creatrice divina non può essere all’origine di un mondo così assurdo: piuttosto, deve aver creato un mondo archetipo – simile per molti aspetti al mondo delle idee di Platone – mentre il mondo materiale sarebbe opera di un intermediario (o demiurgo) malvagio. L’ortodossia cristiana allora si muove per definire le sue linee; in particolare con Ireneo di Lione (135-202) e soprattutto con Clemente di Alessandria (145-212), il teorico di una educazione cristiana fondata sulla verità di Cristo: la razionalità divina del logos fa del cristianesimo la vera filosofia, il vero itinerario di saggezza e santità. Clemente è maestro di esegesi (interpretazione delle Scritture): insegna che, attraverso una corretta interpretazione della Parola di Dio e nella contemplazione delle diverse fasi della rivelazione del logos, l’uomo può raggiungere l’autentica conoscenza: viene fondata così la gnosi cristiana.

 

3.6 Il Neoplatonismo e la crisi del paganesimo

Tra il II e il III secolo, una cultura media più elevata e più diffusa, una diversa coscienza di sé e l’aspirazione di gran parte delle persone a dominare in qualche modo il proprio destino (spesso con l’aiuto dell’intervento divino), si è prodotta una certa inquietudine, cui la nuova religione e la diffusione contemporanea del misticismo e della astrologia possono fornire risposte e soluzioni. Da un punto di vista filosofico, vi è un ritorno al pensiero di colui che poteva dare un fondamento logico alla spiritualità evitandone la fuga dal reale: Platone. La teologia cristiana e la tradizione teologica ebraica successiva a Filone si stanno sviluppando utilizzando elementi comuni tratti proprio dal platonismo; questi elementi vennero ordinati in una sintesi rigorosa e intensa dal filosofo Plotino (202-270) che prende su di sé il carico delle domande esistenziali dell’epoca: riaffermare la razionalità, pensare al mondo come ad un cosmo ordinato da leggi immutabili e provvidenziali, identificare il Bene con un Assoluto che sta al di sopra di qualsiasi cosa, il conseguente bisogno del superamento (anche politico) del politeismo e del pluralismo religioso. Le opere di Plotino sono conosciute per la raccolta operata dal suo discepolo e continuatore Porfirio, nota col nome di Enneadi. Da essa sappiamo che Plotino non considera esistano degli “artigiani del creato”, come era il Demiurgo di Platone; il reale è prodotto dalla costante dinamica dialettica esistente tra l’Intelletto come attività e l’Intelligibile che è oggetto di intellezione, con un rimando evidente al concetto di Intelletto di Aristotele. L’Assoluto, che rende possibile la molteplicità del reale e la stessa dialettica Intelletto-Intelligibile, è l’Uno: esso si manifesta solo in qualcosa che gli è simile, perciò procede verso l’Intelletto dando così inizio al cammino verso il molteplice. Questo procedere continua poi con il passaggio all’Anima, che è forza dinamica e ha la funzione di trasmettere la vita dell’Intelletto alla materia deforme, formandola. Tale processo è immutabile e sempre uguale a se stesso e lo si può descrivere con l’immagine della diffusione della luce (come la luce contiene l’insieme dei suoi raggi, così l’Uno procede verso la creazione). Uno, Intelletto e Anima formano le tre ipostasi (realtà sostanziali per sé sussistenti) della “trinità plotiniana”. La realtà però è qualcosa che si degrada man mano che si allontana dal suo principio e questa progressione verso l’oscurità permette l’intrusione del male nel mondo; è compito dell’Anima intraprendere un graduale ritorno (o conversione) alla purezza originaria attraverso un itinerario spirituale che inizia dalla contemplazione della bellezza sensibile e passando attraverso l’eros platonico e la pura intelligibilità delle idee universali, arriva a cogliere misticamente l’assoluto (l’Uno) superando e trascendendo la sola conoscenza intellettuale.

Il 313 è l’anno del famoso editto di Milano, quello del riconoscimento religioso e sociale del Cristianesimo, promulgato il quale l’imperatore Costantino riconosce privilegi e immunità tributarie ai clerici della Chiesa. Ciò ovviamente favorisce la diffusione della cultura cristiana che non si ferma più, nonostante l’insorgere quasi contemporaneo delle eresie, come quella del presbitero di Alessandria, Ario (da cui l’Arianesimo), il quale afferma che Cristo non ha mai avuto un’anima umana, e nonostante il tentativo dell’imperatore Giuliano (che, eletto nel 361, chiude con un editto le scuole dirette da maestri cristiani nel 362) di rifondare gli antichi culti romani, senza però perseguitare i Cristiani.

Sant’Agostino di Ippona (354-430), figlio di un mercante pagano e di madre cristiana (Santa Monica), studia retorica a Roma e scrive le Confessioni, un testo di efficace lettura e valido come documento formativo che racconta esperienze di vita: gli insegnamenti ricevuti da giovane, gli amori inquieti, il contatto con il Manicheismo (la teoria del persiano Mani, secondo cui l’anima è nettamente divisa tra bene e male), gli studi romani, l’incontro con sant’Ambrogio a Milano e la conversione al Cristianesimo (viene battezzato nel 384), fino alla ordinazione sacerdotale e al vescovato ad Ippona. Agostino si era avvicinato alla filosofia leggendo l’Ortensio di Cicerone, e la considerava un ideale disinteressato di sapienza, ben diverso dal nozionismo formale dei suoi studi letterari; in particolare poi la conoscenza del neoplatonismo gli aveva rivelato una dottrina di squisita spiritualità, che, in contemporanea con la propria complessa evoluzione intellettuale, lo porta ad approfondire la più volte confessata inquietudine interiore fino all’incontro con gli insegnamenti del vescovo Ambrogio, il quale, interpretando le Scritture col metodo allegorico e simbolico, lo ha aiutato a penetrare nel testo con un linguaggio semplice e accessibile senza destrutturare lo spiritualismo neoplatonico, dominante nella cultura del periodo. Agostino allora inizia a sviluppare la sua filosofia del libero arbitrio:

  • – il male è uno spazio non illuminato dal bene e non l’opposto di questo, come volevano i manichei; è un terreno che la volontà individuale non riesce a piegare al bene;
  • – è l’uomo che vuole o non vuole fare il bene;
  • – l’infanzia non è una condizione di naturale purezza, perché anche il bambino può cedere alle passioni;
  • – l’educazione deve condurre a scoprire il giusto risvolto di ogni passione e atteggiamento umano, e a seguirlo;
  • – è l’uso che noi facciamo delle passioni che decide se esse daranno luogo al bene o al male.

L’opera pedagogica più nota di Agostino è il De Magistro, con cui egli entra in conflitto con la tradizione ellenistico-romana che attribuiva un’importante funzione all’insegnamento: nessuno invece potrà mai insegnare nulla che Dio non voglia, perché il vero maestro è solo Dio. Risalta qui un ridimensionamento del ruolo dell’educazione e dell’insegnamento e il conseguente cambiamento di atteggiamento dell’insegnante che avrebbe dovuto porsi come guida più che come istruttore; poiché l’elemento educativo essenziale è la ricerca della verità e non l’insegnamento come imposizione dall’esterno, ogni maestro, a qualunque età, deve aiutare l’allievo a scoprire la verità (imparare ad individuare il significato nascosto e profondo di parole e simboli) verità che è già potenziale dentro ciascun individuo, perciò ogni insegnamento altro non dev’essere che guida ad una sorta di riconoscimento interiore, attraverso l’esercizio della virtù e della carità (amore di Dio e del prossimo). L’anima individuale è però mutevole e quindi non può essere criterio e fonte di verità; perciò la realtà intelligibile e eterna, quella contemplata dall’anima nel mito della caverna di Platone, in questa evoluzione cristiana del platonismo finisce con l’identificarsi con Dio. Questa verità latente – la conoscenza del mondo eterno – è comunque presente nella memoria dell’anima, nelle sue strutture profonde e si rivela per effetto di una illuminazione che procede dal Verbo (logos) descritto nel Vangelo di Giovanni, quale luogo ove risiedono le idee eterne e Maestro interiore dell’anima nella ricerca della verità stessa. È come se l’anima fosse provvista di una ragione superiore che implica la fede e fa leva sull’intelletto e che si volge alle verità eterne ed è appagata da Dio. La scienza invece, in quanto conoscenza delle cose materiali, appartiene alla ragione inferiore identificabile con una curiositas fine a se stessa. Agostino giunge così ad identificare vera religione e vera filosofia, marcando la linea educativa essenziale di tutto il Cristianesimo antico: l’esperienza umana non è tanto uno strumento di miglioramento dell’uomo per questo mondo, quanto piuttosto è perfezionamento in vista del Regno di Dio.

Un’affermazione piuttosto moderna, inoltre, accompagna il pensiero agostiniano: il concetto psicopedagogico di trasferimento, per cui ogni apprendimento è valido solo se è possibile trasferire o dilatare parte di una nozione precedente ad un’altra successiva ancora sconosciuta, in un percorso per il quale diventa necessario accumulare la conoscenza di tutti i particolari per giungere alle comprensioni di senso universali.

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