tracce di storia del pensiero educativo: 2. I VERTICI DEL PENSIERO CLASSICO GRECO

  1. I VERTICI DEL PENSIERO CLASSICO GRECO

 

Nel V sec.a.c., nel corso dell’esperienza storica della polis e delle sue istituzioni, si comincia a ritenere che gran parte di ciò che è considerato doveroso e necessario per fini educativi sia dovuto alle decisioni degli uomini – e quindi modificabile – piuttosto che a qualche “forza” esterna e relativamente lontana da essi. L’elemento umano diventa via via primario nella scena della vita culturale greca, in particolare di quella ateniese, facendo scivolare in secondo piano invece l’elemento naturale: l’idea stessa di natura assume un significato completamente diverso da quello della tradizione, non più indice della totalità dei fenomeni legata a leggi ferree. Lo studio del soggetto umano mette in luce una natura che diventa comprensibile solo grazie all’indagine sui fatti che riguardano l’uomo stesso, fatti dell’anima e fatti del corpo, ed esplicita la necessità di approfondire la ricerca in merito al posto che proprio l’uomo occupa nel mondo e nella storia, nella polis e nella natura.

 

2.1 I Sofisti

Da un punto di vista pedagogico, l’elemento più innovativo di questo periodo sono i Sofisti. A lungo sottovalutati, perché oscurati dalle vette filosofiche di Platone e Aristotele, occupano in realtà un posto importante nella storia del pensiero, se non altro per la loro nuova metodologia d’insegnamento. L’educazione greca, ateniese in particolare, era incentrata sul presupposto della kalokagathia e quindi si basava su un vero e proprio culto della bellezza fisica quale indice della presenza di virtù intellettuale e morale: l’eleganza del corpo garantiva l’armonia interiore. Questo tipo di educazione era, come abbiamo visto, di impostazione aristocratica, tipica cioè di una classe sociale che aveva tutto il tempo di istruirsi ed esercitarsi e che non aveva bisogno di difendere i suoi privilegi, garantiti dalle leggi e dal monopolio economico. Dopo la riforma di Solone, però, le famiglie aristocratiche devono fare i conti con l’ascesa di nuovi ricchi e con l’elevarsi costante del livello di istruzione e del tenore di vita del ceto medio. È giunto il momento di affiancare i valori dell’aristocrazia guerriera a nuovi apprendimenti che consentano la difesa e il mantenimento della propria posizione sociale: la validità sociale e politica di un uomo di rango diventa completa solo con l’acquisizione di nuove capacità e di rinnovati saperi; i nuovi ricchi, che non possiedono aretè di sangue, spingono per un maggiore fruizione delle occasioni che permettono all’uomo di diventare “migliore” e di conseguenza “potente”, e non viceversa. I Sofisti invadono questa scena come i precursori dei futuri insegnanti o educatori: si avvalgono di una cerchia di clienti relativamente vasta, si fanno pagare per i loro insegnamenti e, pur non appartenendo ad una classe propriamente detta, costituiscono un gruppo sociale senza precedenti. La loro ascesa viene favorita, oltre che dai mutamenti sociali di cui sopra, anche da una nuova visione del mondo giuridico: in una Atene che si avvale del concetto democratico di giustizia – per cui i giudici sono cittadini eletti e i giudicati devono sapersi difendere in tribunale e perciò conoscere la legge – inizia circolare l’idea secondo cui non esistono verità assolute (compresa la legge stessa), piuttosto tutto è discutibile e oggetto di verifica qualora se ne muti per i più svariati motivi l’interpretazione. I Sofisti, appunto, insegnano come muoversi nelle trame del discorso per poter convincere gli ascoltatori della propria ragione.

La loro tecnica ha come presupposto il fatto che l’educazione non sia un processo di crescita naturale, ma che si tratti piuttosto di un’influenza dell’ambiente e perciò possa essere guidata da esperti del campo (quali loro si reputano). Il loro insegnamento è una vera e propria technè (= arte, nel nostro comune modo di parlare): un insieme di conoscenze teoriche e di capacità pratiche e creative che possono essere sviluppate all’interno di un opportuno percorso formativo. Protagora (nato nel 480 a.c.), il più famoso dei Sofisti (e con lui menzioniamo anche Gorgia, nato nel 490 a.c.), descrive l’intero iter educativo dei giovani ateniesi dimostrando come davvero fin dalla nascita li si sottopone ad un percorso che si avvale delle influenze del mondo culturale esterno: un percorso cioè costruito nel corso della storia dagli uomini, non soggetto a leggi divine e immutabili, anzi: mutabile e rinnovabile, perché lo spirito umano è per sua natura educabile e tanto più viene educato quanto più frequenta l’istituzione formativa.

In che cosa consiste l’arte dei Sofisti? Essi sono considerati i fondatori della grammatica, della retorica e della dialettica e l’insegnamento di questa che è passata alla storia come “la trinità pedagogica” sofista costituisce l’ossatura degli studi umanistici dei secoli successivi.

La grammatica è la conoscenza della lingua, sia quella “classica” dei poeti, sia quella da usarsi nei tribunali o nelle assemblee o nelle semplici conversazioni: parole, frasi, casi e tempi, concordanze, le forme del discorso. La retorica, dal canto suo, è la vera e propria arte del discorso: saper parlare e convincere gli altri, portandoli ad accettare le posizioni dell’oratore come le più giuste e convenienti (di quest’arte i Sofisti costituiscono il modello vivente). Ma tutta l’arte del persuadere attraverso il discorso sarebbe vana senza padroneggiare la dialettica, ossia il saper confrontare le ragioni opposte di una stessa tesi sapendo che non esistono ragioni vere o false, ma ragioni che possono essere vere o false a seconda di come vengono presentate. Protagora, in proposito, scrive che l’uomo è misura di tutte le cose: è l’uomo che stabilisce il valore delle cose, che decide per chi valgono e per chi no. L’uomo, considerato in quest’ottica, non è più solo un’idea astratta, ma è un concreto che vive, opera e si relaziona: quindi si forma costruendo la sua esperienza di vivente e facendo esperienze, prendendo e rielaborando insegnamenti; l’uomo è insieme soggetto e oggetto di educazione.

 

2.2 Socrate (470-399 a.c.)

Tra i Sofisti, spicca per l’originalità del suo metodo la figura di Socrate; ma fra lui e gli altri “maestri della parola” vi sono alcune sostanziali differenze: intanto, non si fa pagare per i suoi insegnamenti; poi, non scrive nulla di quanto dice, a differenza degli altri Sofisti che – anche solo per necessità di insegnamento – scrivevano e usavano libri; infine, Socrate non dà vere e proprie lezioni, piuttosto “fa salotto” conversando per ore con i suoi interlocutori. Se ne deduce che Socrate ha lo scopo di persuadere i suoi ascoltatori utilizzando come unico strumento didattico la parola.

Secondo la tradizione, due donne hanno notevole influenza nella sua vita: l’insolente moglie Santippe (che sembra il motivo reale per cui Socrate se ne stava in giro tutto il giorno) e soprattutto la madre, che di mestiere era una levatrice e la cui tecnica professionale viene metaforicamente utilizzata dal figlio filosofo per “tirare fuori le idee dalla testa degli uomini”. La maieutica (nome greco dell’ostetricia) è la metodologia che rende famoso Socrate e che gli permette di orientare i suoi insegnamenti allo sviluppo delle capacità dell’uomo (abbandonando, come già gli altri Sofisti, la speculazione sulla natura e sulla ricerca dei principi originari del cosmo), puntando però sull’interiorità più che non sulle abilità: a Socrate interessa la salvezza dell’anima, non la riuscita nelle attività sociali. Da ciò che di lui sappiamo (grazie alla ricostruzione dei suoi insegnamenti tramandataci da Platone, il più grande dei suoi discepoli), egli non usa programmi di studio e non ha classi, né mette in atto una formazione “professionale” di alcun genere. Questa sua consuetudine non è così estranea all’Atene del V sec.a.c., nella quale i cittadini passano le loro giornate a chiacchierare e discutere di qualsiasi argomento; ma ciò non gli impedisce di essere accusato di corruzione dai governanti della polis, perchè Socrate distrae i giovani dalla vita produttiva e stimola la critica nei confronti della stessa democrazia ateniese che, in particolare dopo la disastrosa guerra del Peloponneso contro Sparta, permette ad artigiani fortunati e arricchiti di entrare a far parte della cerchia dei potenti e del governo, quando sarebbe stato meglio, secondo Socrate, che questi avessero continuato a fare i loro mestieri originari, perché un panettiere è bravo a fare il panettiere, non il politico: la politica è l’attività di chi possiede la virtù politica, cioè di coloro che hanno concetti e idee formati in materia. Ciononostante, Socrate non accetta di andarsene da Atene per evitare la condanna a morte: avrebbe potuto scegliere l’esilio, ma un buon cittadino osserva le leggi della città, anche quando sembrano ingiuste.

La tecnica maieutica di Socrate è accompagnata dagli “strumenti” del dubbio e dell’ironia. Per Socrate, il sapere consiste nel sapere di non sapere: la coscienza dell’ignoranza è da lui considerata madre della sapienza (per ignoranza intendiamo il riconoscimento di una mancanza in merito alle proprie conoscenze), così come lo è il dubbio di non sapere abbastanza, un dubbio permanente che ogni uomo dovrebbe coltivare per accrescere il suo sapere. L’ironia socratica consiste nel lasciare che l’interlocutore imposti il discorso secondo il suo modo di vedere, anzi: Socrate aiuta chi parla con lui a svolgere questa operazione, per poi indirizzarlo verso conclusioni opposte mostrando l’erroneità delle tesi precedentemente esposte, e quindi mettendo in crisi l’interlocutore con i suoi stessi argomenti.

Potremmo dire che l’insegnamento socratico è prevalentemente “negativo” perché volto a criticare il costume sociale e culturale della sua epoca, a contestarlo con lo scopo di mettere in crisi i modelli di vita dei ceti in ascesa e per cercare di impedire che le questioni politiche ed educative cadessero in mani sbagliate.

Nella Apologia di Socrate di Platone, Socrate parlando ai giudici che lo stanno condannando dice queste parole:

…io non smetterò mai di interrogare e di stimolare ognuno che incontri con queste parole: ascolta, Ateniese, cittadino della polis famosa per essere saggia e potente: non hai vergogna di preoccuparti tanto di fare soldi più che puoi e di cercare favori e riconoscenze dagli altri, mentre della sapienza e della verità e di migliorare l’anima tua non te ne importa niente, anzi nemmeno ti viene in mente? E se qualcuno dirà che no, che lui se ne preoccupa, non mollerò certo la presa e continuerò a interrogarlo e tanto più a discutere con lui quanto meno egli mi dimostra di non applicare quella virtù, ma solo di vantarsene, fino a che si sentirà un fallito per aver trascurato le cose che contano e di aver dato peso invece a quelle che non contano. E così farò con chiunque, giovane o vecchio, ateniese o straniero, ma specialmente con voi, concittadini ateniesi. (…) Non c’è mai stata ad Atene un’occasione per diventare migliori, Ateniesi, di questo servizio che io svolgo per voi in nome divino. Perché io andrei in giro, se non con lo scopo di indurre tutti a non curarsi con tanta ansia del corpo e del denaro, ma dell’anima, cercando di renderla migliore?

 

2.3 Platone (428/27-347 a.c.)

Aristocratico ateniese, imparentato con uno dei Trenta Tiranni, intraprende una formazione di tipo tradizionale in base al suo rango, prima con l’eracliteo Cratilo e poi con Socrate, di cui è il più grande discepolo. Proprio le vicende legate alla morte di Socrate segnano per Platone una svolta: il mondo sarebbe stato sempre malvagio se i filosofi non ne avessero assunto il governo attraverso il controllo della vita politica e sociale. Questo desiderio diventa un vero e proprio progetto di vita per Platone che si spinge più volte nel tentativo di mettere in atto le sue idee politiche (in particolare a Siracusa), ma sempre senza successo; fonda allora la sua scuola ad Atene, scuola cui dà il nome di Accademia.

Platone è il primo filosofo greco di cui abbiamo tutti gli scritti: i 34 Dialoghi, l’Apologia di Socrate e le 13 Lettere. Gli studiosi del suo pensiero hanno così suddiviso i Dialoghi (ricordiamo i titoli principali), dei quali il protagonista è sempre Socrate:

–      periodo socratico (gli scritti che riportano fedelmente l’insegnamento di Socrate): Carmine, Protagora, Gorgia; di questo periodo è anche l’Apologia di Socrate;

–      distacco dal maestro (gli scritti che mettono in luce il pensiero di Platone nel momento in cui ha intrapreso la fondazione del suo pensiero): Repubblica, Menone, Cratilo, Fedone, Simposio, Fedro;

–      piena maturità (gli scritti che rendono ragione e danno piena forma al suo pensiero): Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Timeo, Filebo, Crizia, Leggi.

Le fonti principali di Platone sono:

–      Pitagora, per quanto riguarda la reincarnazione delle anime, il valore assoluto della matematica, il primato dei sapienti, la mistica;

–      Parmenide, per quanto riguarda la verità della ragione e l’inganno dei sensi;

–      Socrate, per la formazione originaria e perché è il protagonista di tutti i Dialoghi;

–      il modello spartano di educazione.

Dai suoi scritti ci perviene un punto di vista apparentemente antidemocratico; Platone, è bene ricordarlo, era un aristocratico e, in quanto tale, gli era del tutto estranea l’idea che chiunque potesse giungere alla sapienza: piuttosto, essa doveva essere appannaggio solo di coloro che godevano dell’onore e dell’onere di governare la città, privilegio che per diritto di nascita era solo dei nobili; perciò la visione platonica ideale di Stato ha lo scopo di ridare all’aristocrazia il governo della polis in un periodo in cui, come abbiamo visto, stanno emergendo nuove classi sociali e in cui la stessa idea di polis sta perdendo il suo valore politico.

La Repubblica è lo scritto di Platone che più ci interessa, per l’esposizione delle idee politiche e per la descrizione del percorso formativo dei futuri governanti; è inoltre il testo che riporta il “mito della caverna” con il quale viene spiegato che cosa sia il “mondo delle idee”. Proviamo ad entrarci, in cinque riflessioni.

  1. La distinzione in classi sociali è una sorta di predestinazione: c’è una parte della popolazione che deve provvedere ai bisogni primari di tutta la polis (contadini, artigiani, servi,…); è necessario che costoro lavorino, mentre ad altri è data la possibilità di istruirsi e formarsi per diventare governanti. Non si può permettere ai contadini di distrarsi con altro che non sia il loro lavoro, né bisogna che perdano tempo ad istruirsi, altrimenti chi provvederebbe al cibo? Lo stesso discorso vale per gli artigiani (come già Socrate, anche Platone aveva poca fiducia nella nuova classe borghese che era sorta proprio dall’artigianato e che stava occupando ruoli di sempre maggior rilievo nella città). Potremmo dire allora che è stata la divinità a plasmare i cittadini: chi con oro, chi con argento, chi con metalli vili. Da questa prima distinzione, Platone distingue la società in tre classi corrispondenti ad altrettanti ruoli precisi e in linea anche alla visione tripartita dell’anima:
metalli

 

ruolo nella polis tipo di anima rappresentanti
ORO Governanti, custodi della polis RAZIONALE (cervello) Filosofi
ARGENTO Guardiani armati ARDIMENTOSA (cuore) Soldati
METALLI VILI Contadini, artigiani, servi APPETITOSA (intestino) Lavoratori

 

  1. I lavoratori, abbiamo detto, sono destinati a produrre i beni di sostentamento e non devono perdere tempo con l’educazione. Il loro problema è quello di “contenere gli appetiti” e il lavoro rappresenta per loro l’occasione sia per soddisfare i bisogni materiali sia per sfogare la frenesia nascosta nell’anima a loro competente (quella appetitosa, appunto). I governanti e i guardiani armati, invece, hanno il diritto/dovere di sorvegliare i lavoratori – da cui sono mantenuti  – perché svolgano il loro compito, e hanno il privilegio di poter svolgere un particolare iter formativo (come vedremo).

 

  1. L’ideale formativo, per Platone, è quello di saper padroneggiare tutte e tre le anime: solo così ci si può dire “equilibrati”; la leadership spetta comunque sempre alla ragione, cioè la facoltà distintiva dei governanti (filosofi).Il concetto di “padroneggiare le anime” ci rimanda ad un altro scritto di Platone, il Fedro, nel quale si trova il “mito dell’auriga”: l’anima è come un auriga (un cocchiere) che guida una biga trainata da due cavalli alati, uno dei quali tira verso l’alto (verso la luce e il Bene), l’altro tira verso il basso (verso la materia e la corruttibilità). L’auriga deve riuscire a governare i cavalli conducendo la biga il più possibile verso l’alto, verso il mondo ultraterreno (ossia verso l’iperuranio, il mondo che sta sopra il cielo, detto anche “mondo delle idee”), dove tutto è luce e si vive in prossimità degli dei. Perciò la vita civile è tutta affidata da Platone alla fermezza e alla saggezza dei governanti, che sono i filosofi, cioè gli unici in grado di sostenere correttamente la guida dei cavalli, nonché gli unici in grado di affrontare la cosiddetta “seconda navigazione” (contemplare la verità razionale pura: il mondo delle idee). La loro caratteristica è quella di aver raggiunto il livello razionale nella formazione dell’anima, e la ragione – per definizione – è comprensiva della legge e perciò è libera: ragione=legge=libertà.

 

  1. Nella polis ideale di Platone, i dominanti non hanno famiglia; di più, le unioni tra uomini e donne vengono  stabilite in base a criteri di perfezionamento della stirpe. I figli, su modello spartano, dopo lo svezzamento vengono allevati in istituzioni dello Stato; i migliori di questi, selezionati per capacità e vigore, accedono allora al percorso formativo completo, mentre gli altri vengono iscritti nella classe dei lavoratori. La prima parte dell’istruzione comprende gli elementi base del sapere e delle conoscenze, ma sono escluse le favole e le opere dei poeti, perché considerate pericolose in quanto propinatrici di false visioni della realtà. Dopo i sette anni, senza fare distinzione tra maschi e femmine, l’educazione continua con la ginnastica (insegnamento tradizionale in Grecia), intesa come addestramento pre-militare; e con la musica, nel senso di “tutto ciò che ha a che fare con le Muse”: strumenti, canto, recitazione, declamazione di cori lirici. Questa parte di formazione è suddivisa in “primaria” da sette a dieci anni e “secondaria” da dieci a circa  diciotto. Il percorso formativo pensato da Platone non esclude le donne perché, a parità di educazione e di selezione, anch’esse possono accedere alle classi dei guardiani armati e dei governanti. Dopo l’adolescenza, Platone rende obbligatoria l’efebia (come a Sparta), collegio di addestramento militare. Qui si ferma la formazione del guardiano armato. Ma lo scopo di Platone è quello di formare i futuri governanti, cioè i filosofi. Per questi l’iter educativo continua con il superamento dell’anima ardimentosa attraverso il “corso superiore”, dieci anni nei quali si svolge l’apprendimento delle “discipline formali”*, formato dalla matematica, intesa nel senso ampio di “via regina per la conoscenza razionale”, chiave principale per l’interpretazione della realtà e per la comprensione della verità, sistemazione razionale del vero; e da un corso successivo di cinque anni di dialettica, ossia la discussione e contemplazione della verità assoluta. A questo punto, ormai trentacinquenne, chi ha seguito fin qui il percorso, si deve sottoporre ad altri quindici anni  di “tirocinio pratico” accanto ai governanti della polis, per arrivare a cinquant’anni ad essere abilitato per la guida della città.
* il modello pedagogico di Platone è considerato il primo esempio di ciò che nell’età ellenistica, nel medioevo, nell’umanesimo e nell’epoca della controriforma cattolica prenderà il nome appunto di disciplina formale, un insegnamento legato il meno possibile agli aspetti sensibili e tendente ad una impostazione il più possibile astratta.

 

  1. Che cosa significa “contemplare la verità razionale pura”? Proprio nella Repubblica Platone spiega il mondo delle idee attraverso il famoso “mito della caverna”. Gli uomini sono come tanti prigionieri incatenati con la faccia rivolta verso il fondo della caverna in cui sono rinchiusi; alle loro spalle scorrono delle statuette, di cui vedono le ombre proiettate sulla parete che sta loro di fronte. Pensano che quelle ombre siano cose reali, finché non vengono liberati dalle loro catene: allora si voltano e si accorgono che le ombre erano solo immagini delle statue, che sono a loro volta copie di quello che sta fuori dalla caverna: gli oggetti reali che, una volta usciti dalla prigionia, e come accecati da luce improvvisa, non possono vedere se non come figure riflesse. Infine, abituatisi a guardare gli oggetti illuminati dal sole, li potranno contemplare come sono, insieme alla fonte della luce e della vita.

Il sole, nell’allegoria, raffigura il Bene, principio delle idee, cioè degli intelligibili che sono l’oggetto della dialettica. I riflessi sono gli enti matematici, creati dal sapere ipotetico e definiti “intermedi” perché collocati a metà tra il materiale e il trascendente. Le statuette sono gli oggetti della percezione, i fenomeni, le cose del mondo sensibile, le cui ombre rappresentano le prime sensazioni che colpiscono gli uomini prigionieri. (NB: nel Timeo Platone aggiungerà al processo di conoscenza la figura del Demiurgo, colui che plasma la materia in modo geometrico guardando al Bene).

L’anima di ognuno ha già per Platone una sapienza innata, in parte accumulata nelle vite precedenti, in parte derivata dalla intuizione razionale della verità. Questo processo di conoscenza che si mantiene nel passaggio dell’anima di corpo in corpo è da lui chiamato reminescenza: un sorta di viaggio di purificazione dell’anima stessa che man mano va innalzandosi verso la sua dimensione razionale, dove le sarà possibile finalmente contemplare il Bene e partecipare al mondo intelligibile, al mondo delle idee.

Idea secondo l’etimologia greca significa immagine; Platone non allude però all’immagine sensibile, ma a quella mentale, “ideale” appunto; questa immagine è qualcosa di più anche del “concetto” già considerato da Socrate: è dotata di vera e propria vita eterna soprannaturale e gli oggetti che vediamo e tocchiamo, che fiutiamo e ascoltiamo, i fenomeni che percepiamo, non sono che copie imperfette di quell’ideale che vive nell’Iperuranio, nel mondo delle idee.

 

2.4 Aristotele (384-322 a.c.)

Nel periodo in cui la polis sta perdendo il suo potere politico per lasciare il posto, tempo pochi decenni, al dominio macedone e più tardi a quello romano, l’ultima grande voce ateniese è quella di Aristotele. Egli non è in realtà un cittadino di Atene, ma originario di Stagira, un paese della Grecia settentrionale; suo padre era medico presso la corte macedone e ciò permise alla sua famiglia di inserirsi negli alti ranghi della società. Perciò Aristotele, diciassettenne, viene mandato a studiare ad Atene presso l’Accademia platonica, dove rimane fino alla morte del maestro, quando intraprende con l’amico Teofrasto, anch’egli allievo dell’Accademia, una serie di ricerche volte ad approfondire interessi biologici e scientifici. È poi chiamato in Macedonia da Filippo per diventare precettore del giovane Alessandro. Quando, preso il potere, quest’ultimo parte per le sue conquiste, Aristotele torna ad Atene e fonda, vicino al tempio di Apollo Licio, la sua scuola che in onore alla divinità chiama appunto Liceo; in questo che apparentemente può sembrare un ginnasio come tanti altri, si svolge un’attività esclusivamente intellettuale e non l’educazione fisica che è ormai concepita solo come  addestramento militare.

Questo fatto segna la prima delle differenze tra il Liceo e l’Accademia di Platone; cui seguono, non in ordine di importanza ma pressoché contemporaneamente: l’accesso libero a chiunque voglia approfondire il suo sapere (Platone invece accettava soltanto nobili e aristocratici, trasformando così la sua scuola in una specie di circolo di eletti); una sistemazione regolare e graduata dei corsi e delle lezioni, quasi si tratti di una moderna università; la costruzione, per la prima volta all’interno di una scuola, di una biblioteca e di un museo cui tutti gli studenti hanno accesso. Aristotele mantiene la tradizione degli antichi di dare lezioni e fare conversazioni passeggiando: per questo il Liceo è detto anche Peritato e gli aristotelici peripatetici. Inoltre, cittadino del mondo più che cittadino ateniese, egli non intende certo formare i futuri governanti della polis, visto che ormai la sopravvivenza delle città-stato è legata al fare alleanze economiche e politiche più o meno forti in una rete assai più ampia dei confini greci; si sente un cosmopolita e non ha ragioni per opporsi alla sovranità di un impero ben più liberale dei dominatori spartani (che fino a poco prima avevano regnato in Atene) e soprattutto generalmente meglio disposto verso la cultura. Attenzione però: nemmeno Aristotele, come Platone, è favorevole ad un impianto sociale che oggi chiameremmo democratico; i fondamenti ideologici dei due sono molto vicini: anche lo Stagirita ritiene che le classi alte della società abbiano bisogno di una base povera che provveda al sostentamento e alla produzione dei beni di sussistenza, e una società basata sul lavoro dei servi e degli schiavi non può certo assicurare a tutti la cultura. Aristotele è d’altro canto convinto della separazione tra la forza fisica e quella mentale e ciò comporta paradossalmente che per lavorare si debba guaire nella miseria, mentre per studiare basta chiudersi in una specie di solitario e nobile egoismo.

L’educazione perciò deve essere riservata ai cittadini liberi (da cui: educazione liberale), costituita da apprendimenti “nobili” ed evitante quelli “ignobili”. E ignobili sono tutti i mestieri che possono in qualche modo sciupare la natura umana, come quei lavori a pagamento che tolgono dalla condizione contemplativa impoverendo chi li svolge. Ma, diversamente da Platone, Aristotele possiede un vivo senso della politica: non come esperienza dell’ideale, ma come attuazione del possibile. È sua l’affermazione: l’uomo è animale politico. E per politico qui si intende sfrondare da raggiri e da interessi personali la gestione del potere per agire con l’obiettivo reale del bene comune.

Di Aristotele ci sono rimaste molte opere, soprattutto “esoteriche” (quelle cioè scritte per uso didattico nel Liceo). Esse comprendono:

  • Fisica: raccolta di testi filosofici sulla natura in genere;
  • Organon: scritti di logica;
  • Politica: scritti di etica, morale e politica;
  • Metafisica: scritti di “filosofia prima”, così nominati per essere stati ritrovati dopo-la-Fisica);
  • Retorica: scritti sull’arte dialogica;
  • Poetica: scritti di estetica.

Come si vede, gli interessi di Aristotele sono vastissimi e abbracciano tutte le frontiere o quasi del sapere dell’epoca. Per ognuno di questi “saperi” egli indica una metodologia particolare di indagine articolata generalmente su pochi e chiari schemi di fondo. Si rifà continuamente ai molteplici dati dell’esperienza sensibile (aspetto che Platone disprezzava perché fonte di inganno) con la convinzione che, per quanto questo mondo possa essere contraddittorio, sia comunque sempre necessario partire per ogni indagine da quanto la sensibilità di ognuno sa percepire. Si dice che Aristotele riunisce cielo e terra: le “idee” di Platone per lui rimangono un modello di verità funzionale al miglioramento, ma non abitano nell’iperuranio: vivono nelle cose, coesistono con la materia. La natura vivente viene quindi considerata, per ogni essere, ricerca della forma migliore e superamento della materia presente. In questo processo, il movimento (screditato da Platone perché opposto all’immobilità della ragione) diventa il dato unificante della realtà e il principio di Eraclito “tutto scorre” ottiene con Aristotele l’onore del ruolo di principio definitivo di tutta la scienza.

Facciamo un passo per volta, iniziando dalla suddivisione aristotelica delle scienze:

  • – sono scienze pratiche l’etica e la politica, perché hanno a che fare con la condotta;
  • – sono scienze poietiche l’artigianato (produzione di oggetti utili e/o belli), l’arte (architettura, scultura, pittura), le lettere;
  • – sono scienze teoretiche la matematica, la fisica (detta anche “filosofia seconda”), la metafisica e la teologia (detta anche “filosofia prima”);
  • – la logica occupa uno spazio a sé stante: chiamata “analitica” è intesa come “strumento di tutte le scienze”.

Ogni processo di conoscenza dunque è teoria del movimento: tutte le forme del divenire sono un passaggio dalla potenza all’atto, dalla possibilità alla realizzazione. Tutto ciò che si muove è mosso da “altro”, da qualcosa che abbia già realizzato in sé la forma che nel resto esiste solo in potenza. In seguito a questa riflessione, osserviamo come Aristotele giunga al superamento degli Eleati riducendo la contrapposizione tra essere e non-essere a quella di essere in potenza (tensione propria di ogni essere vivente a cercare la forma migliore; indice di futuro e di infinito in quanto possibilità) e essere in atto (obiettivo raggiunto della tensione originaria; indice di presente attuale e quindi di determinazione, ma anche base di possibilità successive).

Il divenire poi si caratterizza in processi di generazione e corruzione, di acquisizione qualitativa e di aumento e/o diminuzione quantitativa, di passaggio da un luogo ad un altro (lo spazio per Aristotele è il “primo immobile” in quanto limite di ciò che contiene), in una dimensione temporale (prima e poi) garantita dalla perfezione dei movimenti celesti. Questa visione della realtà prevede anche la fondazione del teleologismo aristotelico: le cose vanno spiegate descrivendone le funzioni che permettono loro di giungere al fine che è loro proprio. E la trasformazione generale della realtà è mossa dal principio di causalità secondo le modalità dei principi dinamici che prendono il nome di:

  • – causa materiale (i quattro elementi);
  • – causa efficiente (ciò che dà inizio al movimento e alla quiete);
  • – causa formale (ciò che per la ragione è “sostanza”, cioè modello o concetto di un oggetto);
  • – causa finale (ciò per cui una cosa è).

Il teleologismo spiega anche la naturale propensione politica dell’uomo: è necessario che ogni azione si compia tenendo presente il fine per cui viene messa in atto; per ciò l’etica non può essere separata dalla politica. L’essere sociale si attua nel giusto equilibrio tra natura e ragione (e ciò permette il raggiungimento della felicità) e nelle abitudini intese come disposizioni ad adottare comportamenti che rappresentino il giusto mezzo: ogni comportamento portato all’estremo è un errore. Scopo primo dell’educazione sarà allora quello di sviluppare la ragione: l’intelletto infatti è in grado di stimolare e condizionare l’attuarsi della virtù, sia in senso pratico (virtù etiche, strettamente legate al fare quotidiano) sia in senso razionale (virtù dianoetiche, legate cioè alla stessa capacità intellettiva dell’individuo e esse stesse guida dell’etica). “Abitudine” allora potrebbe significare “essere abituati alla virtù”. Questo tipo di percorso secondo Aristotele è possibile per ogni cittadino (non solo ai filosofi, come voleva Platone): ognuno poi si ferma al punto cui gli è possibile arrivare, perciò si avranno uomini-servi e uomini-schiavi (quelli che sostano al primo grado di formazione intellettiva), uomini-lavoratori (quelli che arrivano al secondo grado) e uomini-liberi o cittadini (quelli che percorrono tutto l’iter formativo).

Lo strumento metodologico del ragionamento, ciò che è necessario conoscere per acuire l’intelletto, è stato individuato da Aristotele nella logica, strumento metodologico necessario per organizzare ed elaborare le conoscenze, a base della quale ci sono le categorie,  punti di vista più generici entro cui è possibile inquadrare la realtà e gli aspetti di conoscenza in essa contenuti. Le categorie aristoteliche sono dieci: sostanza, qualità, quantità, relazione, dove, quando, disposizione, avere, fare, subire. Ogni cosa è catalogabile sotto queste angolature e ad esse è possibile far corrispondere le parti del discorso (alla sostanza corrisponde il nome, alla qualità l’aggettivo, alla quantità i numerali, alla relazione l’avverbio, alla disposizione il verbo, e così via).

Dopo le categorie ci sono i concetti, espressioni dotate di capacità di comprensione ed estensione, per cui ad esempio le persone sono definibili come “essere umano”, termine che comprende i caratteri di tutti gli uomini ed estende le loro proprietà a tutti gli individui umani, conosciuti o ancora non conosciuti.

C’è poi il giudizio, ossia la “frase” o enunciato del discorso. La vera conoscenza consiste nel giudizio, che è possibile solo quando siamo in grado di attribuire correttamente un predicato ad un soggetto.

Infine, lo strumento ideale della logica: il sillogismo. Dal greco, sillogismo significa “unione di più giudizi”; esso è costituito infatti dall’insieme di tre giudizi. Quello più celebre recita: tutti gli uomini sono mortali – Socrate è un uomo – Socrate è mortale. Il sillogismo dimostra l’appartenenza ad un elenco di comprensione (se Socrate è compreso fra gli uomini, avrà gli attributi di tutti gli uomini, a partire dalla mortalità), oppure ricavare un accrescimento legittimo con procedimento inverso (la condizione di mortalità è estendibile a Socrate in quanto egli è un uomo). La verità su cui si fonda il sillogismo è data dalla presenza della premessa (il primo dei tre giudizi) ricavata per induzione e quindi non suscettibile di dubbio. Il metodo sillogistico raggiungerà il massimo splendore nel Medioevo, quando sarà esaltato come strumento ideale di conoscenza filosofica e scientifica. Vi è anche il sillogismo semplificato, chiamato entimèma: esso è formato di due soli giudizi con il terzo sottointeso. Dicendo “se studi – avrai un bel voto”, si lascia sottointesa la premessa “chi studia ha un bel voto” (per esteso, avremo il sillogismo: chi studia avrà un bel voto – tu hai studiato – tu avrai un bel voto).

L’induzione che permette di enunciare la premessa dei sillogismi è una sorta di astrazione propria dell’intelletto discorsivo (o logica dianoetica) ed è il procedimento che ricava da molti casi particolari le frasi generali relative all’oggetto di indagine. È diversa dalla intuizione che è invece una capacità visiva dell’intelletto, l’atto di cogliere immediatamente la natura di un ente, competenza propria dell’intelletto che coglie le essenze (o logica noetica) e le fissa.

In conclusione, ricordiamo che Aristotele è stato il primo ad affrontare un discorso che avesse per oggetto la psiche. Questo termine nel suo significato etimologico indica la vita mentale generalmente intesa, l’anima e lo spirito. Essa è qui considerata come un’entità naturale, come la “forma” dei corpi, nel senso che è essa stessa ad animarli e ad indicarne lo scopo. Ciò sta ad indicare quanto per Aristotele fosse importante, come già si è avuto modo di dire, la dimensione sensibile dell’esistenza, quella tanto bistrattata da Platone. Il fondatore del Liceo ci ha parlato per primo della distinzione dei cinque sensi, cui aggiunge la nozione di un senso comune che coordina tutti gli altri. E di questa dimensione fanno parte anche la memoria (che ferma le percezioni e le collega ai contenuti) e la fantasia (un misto di memoria e intuizione). In vetta alla gerarchia psichica c’è il pensiero, o intelletto: è la tipicità dell’uomo rispetto agli altri animali, così importante che lo stesso Aristotele non temerà di considerarlo qualcosa di divino, attribuendogli appellativi quali atto perenne e intelletto agente, molto vicino a Dio che è atto puro non contagiato dalla materia, pensiero di pensiero e motore immobile.

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