MEDICINA NARRATIVA e MEDICAL HUMANITIES: la narrazione che cura

Il concetto di narrazione è molto ampio e riferibile a molteplici stili: alla fiaba, alla leggenda, alla novella popolare, alla storia, al dramma e così via. Sostanzialmente, indipendentemente dal fatto che si tratti di “buona” o “meno buona” letteratura, si rifà all’idea che “la vita stessa è narrazione in quanto storia raccontabile” (Bruner, 1988). Narrare è l’unico modo che l’essere umano possiede per far conoscere un fatto accaduto o la propria storia. L’uso e la presenza costante della scrittura in qualche migliaia di anni di storia dell’uomo dimostra lo straordinario potere comunicativo di questo mezzo; scrivere (o leggere) qualcosa può cambiare il nostro umore e avere implicazioni sul nostro tempo, può cambiare i nostri stati interiori e aiuta l’organizzazione dei pensieri. I motivi per cui una persona scrive possono essere riconducibili al bisogno comunicativo insito nella natura umana e al fatto che la scrittura rimane uno dei metodi più efficaci e sicuri per scambiarsi informazioni.

In questo senso, i recenti approcci biografici e narrativi in medicina mostrano come proprio la narrazione sia un elemento centrale della vita dell’uomo: le nostre vite sono intrecciate alle narrazioni, alle storie che raccontiamo o che ci vengono raccontate, a quelle che immaginiamo e vorremmo narrare; tutto questo bagaglio viene rielaborato nella storia della nostra vita, in una sorta di ripensamento al senso di eventi passati e anticipazione di azioni progettate. L’istinto narrativo è quindi un elemento privilegiato di attribuzione di significati. Le esperienze di medicina narrativa che si stanno sviluppando e le tecniche biografiche cui recentemente convergono i percorsi formativi degli operatori dell’ambito socio-sanitario testimoniano la forte valenza terapeutica della narrazione all’interno di gruppi riabilitativi: i soggetti ricostruiscono i propri mondi narrandoli in un gioco continuo di ridefinizione della propria identità, dando alla terapia narrativa il ruolo di costruttrice di storie di vita; il “pensiero narrativo” che opera al fondo di questo percorso è una sorta di rinforzo alle attribuzioni di senso, una modalità peculiare di ciascun individuo per organizzare, elaborare e narrare i suoi vissuti e l’esperienza del sé. La narrazione è perciò una via attraverso cui dare forma alla propria identità, un’operazione di consapevolezza che aiuta a formare una personale visione di sé e del mondo. Costruire una storia può significare costruire un tratto di vita e, se ciò avvenisse all’interno di un contesto terapeutico e riabilitativo (guidato cioè dalla relazione operatore-paziente), permetterebbe un confronto finalizzato alla rilettura, con sguardi diversi, di storie vissute e all’apertura di scenari aperti a copioni differenti da quelli che il singolo potrebbe aver abitudinariamente e/o patologicamente scritto dentro di sé.

scrivere è stato il più delle volte una sottrazione di peso
(Italo Calvino, Lezioni Americane)

La Medicina Narrativa testimonia che l’approccio narrativo ai percorsi di cura può avvenire in modo scientifico attraverso l’utilizzo di molteplici strumenti atti a classificare ed analizzare le storie al fine di orientare interventi e relazioni verso un processo di cambiamento o miglioramento e verso l’acquisizione di una diversa idea di salute o consapevolezza di malattia; aiuta le equipe a confrontarsi sugli obiettivi a breve, media e lunga durata, favorisce un proficuo confronto stimolato dalla scoperta di  nuovi linguaggi e intenzioni.

 

Scrivo queste cose perché da anni faccio di questo tesoro un punto centrale della mia professione di educatore, conducendo laboratori narrativi e percorsi riabilitativi individuali con ospiti dei Servizi psichiatrici. Gli approcci sono molteplici e oltremodo ricchi, variabili e valutabili a seconda dei soggetti che partecipano a questi progetti: le narrazioni possono essere stimolate da interessi condivisi, dall’attualità, dalla lettura di libri di generi diversi (racconti, romanzi, poesie…); ho lavorato recentemente con le fiabe, utilizzandole quale parallelo (o specchio) della vita reale per far sì che emergesse dai pazienti quale fosse la loro percezione di malattia e poter quindi migliorare, con l’equipe di lavoro, gli interventi riabilitativi.
[al link http://www.medicinanarrativa.eu/vivere-fiaba-un-percorso-narrativo-comunita-protetta-la-fiaba-brutto-anatroccolo è possibile scorgere qualche dettaglio in merito, oltre ad alcune delle parole che sto utilizzando per questo articolo]

 

Mi scorrono tra le mani tante storie, tutte tracciate con stili e colori differenti; posso affermare con certezza che la bellezza di questo tipo di intervento è la sua estrema praticità: l’analisi delle narrazioni dei pazienti non risulta mai fine a se stessa, ma porta sempre all’individuazione di azioni, di “cose che si possono fare” per meglio comprendere e meglio indirizzare le parole e i gesti volti a guidare ed accompagnare il malato psichico nella sua controversa quotidianità. E si va anche oltre: non solo appare chiaro che non si può prescindere dal pensiero e dalle storie dei soggetti delle cure affinché ciascuna di queste cure non dico vada a buon fine, ma almeno tracci una linea di miglioramento, ma potrei anche affermare che tutte le narrazioni che raccolgo fanno luce su tratti identificativi di coloro che le raccontano: ogni paziente non solo narra, ma si descrive. Questo significativo e importante punto di vista pare confermare l’indicazione offertaci dal fondatore dell’ermeneutica Hans-Georg Gadamer il quale, approfondendo e probabilmente oltrepassando l’indirizzo già dettato dall’esistenzialismo di Heidegger per cui il linguaggio è la dimora dell’Essere, porta a considerare che a noi “esseri finiti” non è dato conoscere “le cose come sono”, ma possiamo conoscere davvero soltanto nell’interpretazione e nel linguaggio: l’Essere non è un’”oggettività” data da fuori, ma una “soggettività” che esprime ciò che ha dentro. Per dirlo con le parole stesse del filosofo tedesco: l’Essere, che può essere compreso, è linguaggio (Gadamer, Verità e Metodo, ed. Bompiani 1986). Alla luce di ciò, nei contesti di cura le parole dei malati assumono una posizione prioritaria e significante per poter delineare percorsi di benessere.

L’agito dei pazienti psichiatrici con cui ho a che fare quotidianamente assomiglia molto alle loro narrazioni, a volte è frammentato, altre è ripetitivo, altre ancora è bloccato o è iperattivo, e così via. Uno sguardo frettoloso a questi modi di fare potrebbe far stazionare l’operatore in una posizione di “osservatore di stranezze”; ma poter/voler ascoltare le storie che sottostanno a quei comportamenti permette di uscire dall’ottica semplicistica del giudizio di “adeguatezza/inadeguatezza” e aiutare ad accompagnare i pazienti in una condizione di accoglienza e rispetto che li valorizza e li responsabilizza. Noi diciamo tante cose ai nostri ospiti, a conferma del fatto che l’operatore stesso è linguaggio che vuol essere compreso. E ciò può avvenire solo laddove la comprensione è reciproca. Non sono un fan accanito della costruzione di “linguaggi comuni”, per quanto sia utile dettare parametri di senso condiviso all’interno di una relazione: ognuno è un linguaggio, un dirsi, un raccontarsi quotidianamente dentro contesti diversi e con modalità uniche e originali; la prima forma di comprensione dell’altro sta forse proprio nel saper accogliere il suo linguaggio – e quindi la sua persona, il suo Essere: una sorta di “ascolto a trecentosessanta gradi”, se posso azzardare una definizione relativa allo stare con i pazienti.

In un gioco di costruzione letteraria, mi piace pensare all’operatore come ad una parentesi all’interno di un discorso: nel percorso di vita del paziente (il discorso), l’operatore compare solo per un tratto (la parentesi); funzione della parentesi, di solito, è quella di dare una spiegazione migliore, una sfumatura, un senso in più, alle parole che la precedono. Ecco, mi piacerebbe che le parole tra parentesi dell’operatore (il linguaggio, l’Essere dell’operatore) siano un’utile ed efficace sfumatura data al discorso del paziente (il linguaggio, l’Essere del paziente).

Emanuele Martignoni,
educatore professionale e Master in Medicina Narrativa Applicata

per approfondire: http://www.medicinanarrativa.eu/medicina-narrativa-portale-istud

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