tracce di storia del pensiero educativo: 4. IL MEDIOEVO, TRA SANTI E CAVALIERI

  1. IL MEDIOEVO, TRA SANTI E CAVALIERI

 

Nel 452 Attila fa il suo ritorno in Italia a capo degli Unni e sembra possa arrivare tranquillamente a Roma senza trovare ostacoli di rilievo. Chi lo costringe a trattare e a fermarsi è papa Leone I. Questo episodio è simbolico rispetto a quanto sta succedendo: il potere civile romano, ormai in sfacelo, non ha più alcun peso politico, mentre invece il potere cristiano sta diventando il vero ago della bilancia nelle questioni storiche, sociali e politiche dell’Europa del V secolo. Da qui in poi, per qualche secolo, la Chiesa diventa l’unico baluardo contro le invasioni barbariche; pur sottolineando il suo potere prevalentemente spirituale, non è sottovalutabile quanto in breve diventi forte anche dal punto di vista economico e degli equilibri politici.

 

4.1 L’esempio dei monasteri

I primi monasteri, che si stanno allargando a macchia d’olio in tutta Europa, non sono molto dissimili a rifugi fortificati e danno ospitalità ad intere famiglie, custodendo come vere e proprie banche sia i risparmi dei contadini che i patrimoni dei signori. Sono i luoghi meglio difesi in caso di attacchi barbarici e funzionano contemporaneamente come mercato e magazzino di viveri e beni di consumo. Le persone che vivono nell’area dei monasteri vengono senz’altro trattate con rispetto e prestare servizio dentro le dimore religiose non era per la gente di allora come essere schiavi di qualche padrone, anche se le condizioni di vita del tempo non potevano dirsi certo serene. Inoltre, dentro e attorno ai monasteri si va costruendo una vita simile a quella cittadina, con tutti i risvolti sociali del caso (quindi anche litigi, assassini, lotte di potere, ecc.); bisogna dire anche, però, che i figli dei lavoranti dei monasteri vengono istruiti, specie se si pensa possano abbracciare l’ordine monacale come scelta di vita (cosa spesso consigliata, se non altro per abbandonare la condizione di povertà). I monasteri diventano allora l’unica istituzione in grado di promuovere vita produttiva e commerciale, soprattutto nel periodo che va dal crollo dell’impero romano alla cosiddetta “rinascita carolingia”. Essi funzionano di fatto basandosi su quei modelli di vita feudale che diventano tipici di tutta l’epoca medievale (i potenti e i nobili avrebbero seguito alla lettera l’esempio dei monaci – prestazione d’opera in cambio di protezione – sostituendo però al monastero i loro castelli).

Il modello socio-educativo di riferimento del periodo sono i monasteri benedettini. Benedetto da Norcia fonda nel 530 la famosa abbazia di Montecassino e scrive la celeberrima Regola di vita conventuale centrata sul motto ora et labora che viene letteralmente rispettato, soprattutto agli inizi di questa esperienza – quando le comunità non sono troppo grandi e possiedono solo piccoli pezzi di terreno cui badare autonomamente. Quando poi, grazie a offerte, eredità e beneficenze, vengono in possesso di aree ben più vaste, rimane l’obbligo formale per i monaci del lavoro manuale, ma la loro attività viene quasi interamente occupata dall’organizzazione del lavoro altrui e dalla gestione del culto. Sta di fatto che il monastero è anche l’unica scuola del tempo e i monaci sono i maestri per qualsiasi livello di studi, almeno fino al XII secolo. La Regola benedettina però non si occupa direttamente dell’istruzione, pur riservandosi di dare alcune indicazioni sull’educazione morale e religiosa dei fanciulli verso i quali si richiede pazienza e  comprensione. La scuola dei monasteri, l’unica vera scuola finora esistente, è riservata ai futuri ecclesiastici; ma nelle corti signorili, i futuri signori incominciano a ricevere accanto all’educazione militare anche quella culturale e alcune nozioni giuridiche e amministrative: si inizia a considerare che la competenza governativa necessita probabilmente di arguzia e intelligenza più che di forza e vigore fisico.

 

4.2 Le arti liberali

Va a Carlo Magno l’idea che troverà seguaci nella storia a lui futura: il concetto che l’istruzione di base procuri un proporzionale elevamento della condizione sociale ed economica (anche se passeranno secoli prima che quest’idea trovi efficacia): il che significa cercare di diffondere il più possibile l’istruzione, anche al di fuori dei luoghi privilegiati nei quali già si danno lezioni, vale a dire i monasteri e i castelli. Le scuole ecclesiastiche medievali continuano comunque ad espandersi, che seguano o no l’ideale carolingio, pur se restie nei confronti di coloro che da adulti non avrebbero preso alcun voto religioso. Nonostante il decreto con cui Lotario, nell’825, decide che tutte le scuole pubbliche devono essere gestite dallo Stato (ad eccezione di quelle specifiche per le carriere ecclesiastiche), i maestri e gli insegnanti continuano di fatto ad essere degli ecclesiastici anche nelle scuole pubbliche e tutto sommato i laici frequentanti le scuole sono molto pochi.

La scuola carolingia, nello specifico, prevede un ordinamento settenario di insegnamento: le arti del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e le arti del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica). Queste sette arti vengono definite liberali, degne di uomini liberi. Il procedimento didattico, su esempio del metodo dei monaci, è impostato su: 1. la lectio, ossia la lettura e il commento di un testo, sotto la guida dell’insegnante; 2. la disputatio, discussione serena tra professori e allievi, al fine di cogliere la profondità dei testi studiati.

Trivio e quadrivio formano un corso di studi simile alle nostre scuole secondarie, sfociante poi in corsi di livello superiore, come la filosofia, il diritto, la medicina. È  prevista, prima della formazione liberale, anche un’istruzione di base, impartita o dagli stessi insegnanti di grammatica o da maestri privati.

 

4.3 Dal mito del cavaliere all’ascesa della borghesia

Questo ordinamento scolastico, tuttavia, non è in grado di esaurire tutte le forme di educazione e apprendimento presenti nella società medievale: nella famiglia, nei castelli, nelle campagne, nelle città e in molti altri ambienti si fanno esperienze di diverso tipo che insegnano a vivere e, perché no?, ad acquisire scienza. Infatti non tutti i giovani figli di feudatari frequentano le scuole ecclesiastiche, ma, man mano che si ingrandisce l’organizzazione sociale feudale, un nuovo mito educativo si affaccia all’orizzonte oscurando la vecchia tradizione ecclesiastica: il guerriero feudale, poi meglio noto come cavaliere. La formazione del cavaliere avviene tramite un percorso di iniziazioni: il giovane nobile, affidato alla madre più o meno fino ai sette anni, diventa poi paggio al servizio di un signore amico; a 14 anni passa a scudiero e gli è permesso accompagnare il cavaliere alla guerra, ai tornei, alla caccia; dopo i vent’anni, può lui stesso venir nominato cavaliere e da qui in poi si dedica interamente alla vita armata, tra tornei e guerre e crociate, vendicando torti, proteggendo un offeso che lo avesse richiesto, ma anche attuando soprusi. Il cavaliere è educato a disprezzare il lavoro e coloro che devono lavorare per vivere (perciò non reputa infamante di tanto in tanto saccheggiare e derubare i contadini); la cavalleria però ha anche il merito, bisogna sottolinearlo, di sgrezzare alcune usanze delle corti signorili, introducendo dei rituali non violenti nelle modalità relazionali e comportamentali. Essa però decade nel momento in cui il cuore della vita feudale, per via dello sfruttamento di risorse sempre più scarse, si sposta dai castelli e dalle campagne ai nuovi borghi che ingrandendosi formeranno le città.

E le classi popolari? Fino a circa l’XI secolo, si tramandano modelli educativi ben diversi, anche perché queste classi sono escluse dalla frequenza scolastica – tranne che per chi, come già detto avrebbe abbracciato la carriera monacale. I rapporti feudali in realtà hanno la pretesa di essere educativi, nel senso che, essendo impostati su gerarchie precise, impongono l’adeguamento ad altrettanto precisi ruoli corrispondenti che ciascuno si prepara ad assumere nella socializzazione familiare e sociale di appartenenza e attraverso l’apprendimento di un mestiere: i maschi prendono il lavoro del padre, le femmine il ruolo della madre, di generazione in generazione; ma così, il figlio del contadino avrebbe sempre fatto il contadino, la figlia avrebbe badato alla casa e generato figli, senza nemmeno pensare a spiragli di mutamento. Non è fin qui prevista perciò per il volgo alcuna forma di educazione diversa da quella domestica.

A partire dall’XI secolo però il commercio ha una inaspettata e notevole ripresa: si rompe l’economia chiusa dei feudi, rifioriscono gli scambi, si ha un nuovo respiro finanziario e un rilancio dei rapporti umani. Fabbri, tessitori, falegnami, carpentieri, muratori,…, affluiscono ai borghi dove si fa necessario affinare e specializzare la produzione, occuparsi in proprio delle materie prime e della contabilità, piazzare la merce prodotta sul mercato. Questa mole di lavoro non è più agevole per il singolo; nascono allora le corporazioni, associazioni comunali di arti e mestieri, che permettono non solo la formazione di piccole comunità di artigiani di vario tipo all’interno dei borghi, ma anche il miglioramento della propria professione in termini qualitativi (per cui molti fabbri, per esempio, diventano artisti del ferro, e così via). Quanto più migliora la qualità, tanto più si ha la necessità di finanziatori, venditori e agenti di commercio. Ciò rende attiva nella società medievale una rete di comunicazioni sempre più fitta e proficua nella quale ognuno che svolga al meglio la sua parte ha solo da guadagnare.

È così che all’interno delle botteghe artigiane nascono percorsi formativi piuttosto lunghi (comprendenti a volte anche quote di iscrizione) in relazione all’arte praticata e alle richieste del mercato. Si tratta sostanzialmente di un addestramento produttivo sempre più raffinato, pur se abbastanza statico; innovativo diventa invece il percorso di formazione dei mercanti, sempre dediti alla ricerca di strategie nuove riguardanti le tecniche di calcolo, la registrazione delle merci, le procedure di contabilità, le competenze geografiche per traffici sempre più diramati e complessi. Ne consegue che i progressi dell’istruzione sono strettamente e necessariamente legati a quelli delle attività commerciali. Proprio da queste esperienze si sviluppa quella classe sociale che nei secoli a seguire acquisterà importanza sempre crescente: la borghesia.

Nel XII secolo vengono introdotte nuove e più selettive disposizioni per gli apprendisti e i lavoranti: prolungamento dell’apprendistato, aumento delle tasse per ottenere il titolo di magister, obbligo di eseguire un “capolavoro” a garanzia delle capacità individuali. Le botteghe diventano a tutti gli effetti luoghi di formazione, perché ciascun maestro vuole e deve essere certo del valore delle persone cui avrebbe lasciato la sua impresa, al punto che al carattere familiare dell’impresa si sostituisce poco alla volta quella del rapporto tra datore di lavoro e impiegato. L’educazione più efficace è, guarda caso, quella offerta dalle corporazioni artigiane, che tocca livelli molto alti e che prevede la necessità di superare severi esami periodici per i quali occorre prepararsi al meglio. La borghesia cittadina alimenta così vere e proprie scuole comunali, generalmente di livello primario, ma anche – in casi particolari – capaci di qualificare ulteriormente il modello didattico del trivio e del quadrivio, sostituendolo con un modello più al passo dei tempi e specialistico: è allora che sorgono le università degli studi.

Le università tra il XII e il XIII secolo altro non sono che associazioni corporative riconosciute dal potere. Vengono considerate tali le corporazioni di arti meccaniche (tessitori, tintori, pellicciai,…) e quelle delle arti liberali (per giudici, notai, medici, speziali,…); successivamente, il nome università verrà utilizzato solo per indicare le arti liberali e gli studi di teologia. L’università inizialmente non ha sede fissa: professori e studenti spesso vagano cercando ospitalità in qualche casa (se i professori sono ecclesiastici, si usano per le lezioni le chiese o i conventi). In breve però sorgono dei comitati promotori delle università, formati da studenti (per lo più borghesi non sempre giovanissimi) o da professori: i primi promuovono la fondazione dell’università di Bologna, i secondi di quella di Parigi. La novità di queste istituzioni sta nella loro pretesa di autonomia, anche dal controllo ecclesiastico.

Ben presto, all’interno di queste nuove istituzioni, nuove arti liberali si affiancano a quelle tradizionali; si sviluppa la scienza medica, si innalza il reddito dei rettori, si allarga la rete di nuove occupazioni all’interno dell’università stessa (bibliotecari, cartolai, legatori, bidelli, oltre ai già presenti professori e amanuensi, tutti quanti sottoposti al regolamento delle corporazioni).

 

4.4 Tommaso d’Aquino (1225-1274)

Considerato la mente più vigorosa di tutto il medioevo cristiano, Tommaso si forma come benedettino, ma prende i voti come domenicano. La sua grandezza è quella di tentare di conciliare le opposte direzioni di fede e ragione, recuperando l’aristotelismo e rendendolo compatibile con il Cristianesimo. Prendendo direttamente da Aristotele, egli afferma che niente è nell’intelletto se prima non è stato registrato dai sensi, nel senso che tutto l’apprendimento umano, anche quello che riguarda l’esistenza di Dio, deve passare attraverso le forme intelligibili esistenti. L’atto del conoscere è possibile perché i sensi astraggono dalle esistenze particolari le immagini universali, rielaborandole e collegandole ad altro e dando così origine al pensiero. L’intelletto umano è attivo e passivo insieme: attivo perché libero di costruire le immagini di verità, passivo perché le sue scelte non fanno che registrare forme intelligibili già costituite da Dio. Il maggior benessere spirituale ci è possibile grazie alla libertà che consente ad ognuno di formare quelle caratteristiche/competenze ritenute più utili per tale scopo, poiché le virtù, come i vizi, sono abitudini. L’educazione perciò sarà una metodologia per disciplinare il trasformarsi delle buone disposizioni in buone abitudini, eliminando progressivamente quelle cattive e quindi l’insorgere dei vizi. Questa disciplina si ottiene con la ripetizione di esercizi intellettuali e comportamenti opportuni, con lo scopo di trasformare in atto ciò che in potenza esiste nell’allievo. Ciò vale per ogni sapere (apprendimento mentale), oltre che per il comportamento. Chi insegna, ha il compito di stimolare il sapere e le buone abitudini dell’allievo, elevandolo dalla potenza all’atto. Si può apprendere anche attraverso una ricerca interiore, perché in noi abita il principio dell’Intelletto agente, grazie al quale si conoscono naturalmente e direttamente alcuni principi generali di ogni scienza. È sempre Dio comunque che infonde nell’anima quel principio interiore senza il quale anche l’intervento esterno dell’educazione perderebbe senso.

Tommaso è tuttavia molto più conciliante di Agostino (per il quale Dio è l’unico vero maestro) nei confronti del ruolo educativo della realtà esterna (ambiente e persone) e mostra sempre grande fiducia nelle capacità dell’intelletto umano.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.