Ma che ne sa il ciliegio

di Emanuele Martignoni

 

Il ciliegio non lo sapeva.

La scia dell’anno vecchio era sfumata nelle luci di Natale sparpagliate tra le pagine di un inverno blando e pigro, il freddo non si era mai fatto pungente, se non per qualche sottile gelata mattutina. La neve si era vista una sola volta ai piedi delle colline e tra i laghi, una spruzzata veloce e senza pretese; più su sì, invece: là era nevicato in abbondanza, le teste verdi delle Prealpi si erano ammantate di bianco e le vette aguzze delle Alpi non lasciavano dubbi al fatto che di fiocchi ne fossero scesi in gran quantità: lo spettacolo dell’arco alpino appariva incantevole e candido.

La vita proponeva il solito andare dei giorni, più o meno febbrilmente frenetici; il mondo aveva dimenticato da tempo la calma, gli uomini difficilmente si adeguavano alla tranquillità: c’era sempre qualcosa da fare. Se non era il lavoro erano gli acquisti, se non era la spesa erano i figli, se non erano i compiti erano duecento attività sportive e hobbistiche. Mai che si desse dello spazio alla noia. Mai che le si desse tempo. Contava solo fare. Fare. Fare.

Ma il ciliegio non lo sapeva.

Lui, il ciliegio, se ne stava nel suo angolo silenzioso di giardino. I rami spogli tesi al cielo limpido. Aveva raccolto nelle sue vene il calore dell’estate passata; se n’era fatta una ragione, dell’autunno e dell’inverno, sapeva che gli erano necessari per ricominciare. Che poi, in fondo, non è che fosse finito qualcosa… quello era il ciclo delle stagioni, e tanto gli bastava.

Cambiò l’anno e venne febbraio coi suoi venti nuovi e l’abbozzo di un possibile tepore. La vita degli uomini continuava impaziente e disarmonica; gli affetti erano misurati, i profitti una priorità, le cose si accumulavano nelle case riempiendo fintamente i vuoti dell’anima. La cifra del tempo era roboante, simbolica, significativa: duemilaventi, due zero due zero, venti venti. Che spettacolo, pensavano gli uomini, che bel numero, che anno meraviglioso con questo rincorrersi di segni uguali nel suo nome… due zero due zero. Sarà epocale, sarà una svolta. Compie cent’anni la belle époque, ne rivivremo i fasti. Saremo grandi.

Ma il ciliegio non lo sapeva e osservava il suo prato tornare verde e il suo cielo, raramente attraversato da nubi, riempire l’aria di azzurro.

Da lontano giunsero le avvisaglie di un tormento nuovo. Che vuoi che sia, dicevano gli uomini, non riguarda noi, è un tormento lontano, una roba cinese che si smazzeranno loro. Però state attenti, era il loro messaggio da quei posti lontani, perché si allarga, si allarga, si allarga. La gente muore. Sta male, e poi muore. Non tutti, quelli più deboli.

Che vuoi che sia, dicevano gli uomini, tuttalpiù se ne va qualcuno che non ha più molto da dire. Terribilmente insipida, la scorza di questi uomini il cui scopo era fare, fare, fare, accumulare cose, avere profitto.

Ma non ci volle molto perché sotto quella dura scorza insipida si insinuasse il serpente della paura. La baldanza non si era affievolita subito, ma sì, tanto va via in fretta, nemmeno ce ne accorgiamo. E no, invece. Ce ne si è accorti. Eccome. Perché via via il tempo si è fermato. O no, attenzione, il tempo andava avanti a scorrere inesorabile, ma tutto quello che gli uomini legano al tempo – a che ora devo fare questo, a che ora devo fare quello – si era fermato. Non c’era più tempo per la futilità. Questa volta, in gioco c’era la vita. Non quella lontana di quelli là. Ma quella vicina di questi qua. Perché come una macchia d’olio che imbeve la tovaglia, così quel tormento tanto reale si andava allargando per paesi, città, nazioni, e gli uomini si ammalavano. E morivano. Qualcuno ci provava a sdrammatizzare: che vuoi che sia, se ne andrà via. Qualcuno ci provava a far finta di niente, a comportarsi come se niente fosse, beviamo un drink, facciamoci un giro in centro, ci servono le cose per riempire il vuoto della nostra anima. Ma il serpente della paura stringeva le sue spire sempre più forte, lasciando gli uomini senza fiato. E senza fiato si muore. Un esercito di persone silenziose, coi camici verdi e le mascherine…non di carnevale e i guanti blu metteva mano al tormento e provava a dargli un freno. Mancava l’aria, agli uomini. Mancava l’aria.

Ma il ciliegio non lo sapeva. E sul finire di febbraio cominciò a mettere la prime foglioline verdi. Il merlo veniva a scrollarsi sui suoi rami. Il sole tiepido correva in brividi sulla corteccia che tornava a scaldarsi e a profumare. Il tempo degli uomini si era fermato, o meglio: era stato sospeso. Tutte le attività, sospese. Tutto il fare, sospeso. Tutto ciò che ora si poteva fare era stare in casa e non ammalarsi, oppure stare in casa e ammalarsi e morire, o stare in casa e ammalarsi e guarire. Perché quell’esercito di persone silenziose era l’unico a cui non era stato sospeso il fare, ed era l’unico a cui il tempo non bastava, l’unico che sapeva quali erano i gesti per rallentare la pena. Sfinite e consumate dalla fatica, queste persone rispondevano al tormento con l’unica arma che possedevano: la cura. Perché non importa se sei un bambino o un anziano, se sei forte o se sei debilitato. La cura è per tutti, la cura allevia il tormento.

Il ciliegio non lo sapeva e a metà marzo cominciò a buttar fuori le gemme. Il cielo era sempre azzurro. La terra era un silenzio surreale. Gli uomini, nelle spire della paura – forse non tutti, ma tanti sì -, non lasciavano le loro case. Chi era fuori aveva compiti ben precisi: fornire il cibo o andarlo a prendere, ritirare la spazzatura, consegnare la posta, presidiare l’ordine e la disciplina. Accudire i malati. Tutto il resto non esisteva più. Ci si poteva far crescere i capelli senza pensare a quando andare dal parrucchiere. Ci si stava accorgendo che tanto fare e tante cose erano un “di più”. La città era colma di parcheggi vuoti, non accadeva da almeno trent’anni. Quel che contava era salvarsi la vita. Trattenerla. Custodirla. Il ciliegio non lo sapeva e lasciava che le sue gemme nuove prendessero l’aria e il sole e qualche spruzzata di pioggia e il ronzio dei primi insetti e il canto del merlo e dei passerotti indaffarati a costruirsi il nido. Si sentiva di più, il canto della natura. Dai cortili e dai terrazzi, l’eco cristallina di qualche gioco di bambini. Le voci sommesse di familiari inaspettatamente più vicini. Si stava insieme nelle case senza uscire, e così pian piano si tornava ad apprezzare il valore di piccoli gesti perduti nel tempo, la gentilezza e le attenzioni che la frenesia aveva accantonato, il gusto per un libro, due parole dette con tranquillità, una preghiera, un piatto condiviso con amore. Si tornava a darsi una mano…senza stringersi le mani!, e a sorridere insieme. Là fuori il tempo poteva anche essere sospeso, ma qua dentro si respirava un’aria nuova. O un’aria ritrovata. Aria. Si respirava. Gli uomini si erano dimenticati della paura, non avevano più tempo per lei. Sì, certo, il tormento intorno serpeggiava ancora, ma dentro le loro case gli uomini trovavano gemme di una nuova primavera.

Il ciliegio non lo sapeva. Non lo sapeva, ma il clima era un po’ cambiato. Era come se la fretta avesse cominciato a prendersela comoda, e quindi non era più fretta, ma era calma. Gli uomini stavano come in attesa, passeggiavano sulla vita in punta di piedi. Si scambiavano tante informazioni usando finalmente in modo intelligente i social network e gli apparati tecnologici. Maestri e professori insegnavano da dietro una webcam che adesso si chiamava scuola a distanza. Molti si sentivano vicini a chi era lontano. Si confidavano al telefono con chi conoscevano da poco, ma era come se si conoscessero da sempre. Perché, vedete, l’umanità è una cosa strana e, quando succede che un tormento attanagli tutti, tutti ci sente uguali. Tutti con qualcosa da condividere per alleggerire il peso che ci si porta dentro. Avranno capito?, si domandavano il politico e il barman e la mamma di due piccoli bimbi e il papà di un adolescente arrabbiato col mondo. Forse hanno capito, si ripetevano nel cuore quelle persone che con le mascherine, i guanti e i camici verdi continuavano ad elargire la cura a tutti coloro che ne avevano bisogno.

Il ciliegio non lo sapeva e nel bel mezzo del già caldo aprile esplose in un tripudio di rosa con tutti i suoi meravigliosi fiori aperti e profumati.

Gli uomini avevano imparato che esiste qualcosa che conta assai di più del fare, fare, fare; di più dell’avere profitto; di più del non interessarsi delle cose. Un po’ di paura c’era ancora, ma se ne stava là in disparte, come un insegnamento da non dimenticare. E così sono tornati fuori dalle loro case con un’aria pulita, dentro di loro. Sono tornati a darsi le mani e ad abbracciarsi. Perché è stato come congelare di colpo tutto quanto e dover andare a pescare dentro di sé la linfa delle cose belle, quelle che accendono il fuoco dentro il cuore e rendono lieta la vita, anzi: la rendono un fiore.

E questo il ciliegio lo sapeva bene.

 

(foto dal web)

Per chi volesse ascoltare la storia da YouTube, il link è:
https://www.youtube.com/watch?v=DnH4YNfCNuk

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