Mi resi conto di aver perso l’ultimo treno vedendolo scivolare via lungo i binari; la possibilità di tornare a casa in tempo per cenare coi miei era sfumata. La stazione era pressoché deserta, salvo qualche miagolio confuso nell’eco dei rumori della città là fuori.
Non che mi dispiacesse – dico, il fatto di aver perso il treno. In fondo erano mesi che non rientravo a casa, e avevo anche cercato di dare a mamma e papà delle giustificazioni, tuttavia senza ottenere risposte. Non capivo se avevano deciso di dimenticarmi completamente (da quando preferii la città alla nostra abituale dimora di campagna), o se si ricordavano di me come ci si ricorda delle persone guardando le fotografie, o se sapevano o sentivano o prevedevano che prima o poi sarei arrivato da loro; alle venti e trenta, l’ora di cena. Sì, perché è bene sapere che quella è sempre stata l’ora della famiglia tutta riunita, e qualsiasi cosa uno avesse avuto da fare in qualsiasi giorno dell’anno, a quell’ora l’avrebbe senz’altro interrotta per mettere le gambe sotto il tavolo di casa; il babbo tornava dai campi o dal bar, io e mio fratello smettevamo di studiare, la nonna posava aghi e filo, la mamma metteva in tavola i suoi piatti deliziosi. Il problema era che pareva fosse vietato cenare fuori, o meglio: che non si potesse saltare la cena in casa. Tant’è che mi accadde spesso di cenare due volte, prima – per forza – in casa, poi magari fuori con gli amici.
Io ero arrivato in città per frequentare l’università, Scienze Matematiche. All’inizio tornavo sempre a casa, dopo aver seguito le lezioni; tuttavia vi erano giorni nei quali, vuoi per un ritardo del treno, vuoi per essermi dilungato in chiacchiere con qualche compagno di corso, non riuscivo a tornare per le venti e trenta. Quando succedeva, i miei erano capaci di mettermi il muso per un giorno intero e la cosa mi faceva un poco soffrire. Fu così che decisi di prendermi un piccolo appartamento alla periferia della città; e se ero in ritardo, potevo cenare quando volevo, e, a ben pensarci, anche con chi volevo o anche da solo. Quando ero certo di avere tempo in abbondanza per farmi comodamente il viaggio, allora tornavo dai miei alla casa di campagna: alle venti e trenta ero senza dubbio seduto a tavola con loro, e loro di questo erano molto felici. Magari poi passavo lì anche la notte e tornavo in città l’indomani.
Al terzo anno di studi universitari però dovetti trovarmi un lavoro part-time col quale pagarmi l’affitto, per non continuare a gravare sui miei; le ripetizioni che davo non bastavano. Lo trovai presso una piccola biblioteca di periferia, che già frequentavo a volte per studiare: vi andavo alle sedici e trenta, con l’incarico di riordinare gli scaffali ed eventualmente catalogare i nuovi arrivi; stavo lì fino all’ora di chiusura: le venti e trenta. Tutti i giorni tranne la domenica, che usavo quasi sempre interamente per studiare.
Quando i miei seppero questa cosa fu grande la loro delusione: capirono che avevo definitivamente scelto la città; ma gli promisi di richiedere almeno un permesso al mese per poter cenare con loro alle venti e trenta. E così feci, fino a sette mesi fa.
Da allora non ce l’ho più fatta: ho sempre avuto qualcosa ad impedirmi di salire sul treno per tornare a casa. Nonostante tutto, sarò sincero, a volte provo un po’ di nostalgia per quel momento di tutta la famiglia riunita, alle venti e trenta.
È che mi par d’essere sempre più prigioniero di questa stazione, dal giorno in cui finii sotto il treno; e benché ora sappia attraversare le pareti e non abbia più bisogno di dormire, devo ammettere che provo come una specie di fame, tutti i giorni verso le venti e trenta. Ma non riesco a salire i gradini del treno, lo vedo scivolare lontano.
Mi terrò la mia fame, e saprò con esattezza che ore sono.
(Em.mA)