VENTI E TRENTA

VENTI e TRENTA

Mi resi conto di aver perso l’ultimo treno vedendolo scivolare via lungo i binari; la possibilità di tornare a casa in tempo per cenare coi miei era sfumata. La stazione era pressoché deserta, salvo qualche miagolio confuso nell’eco dei rumori della città là fuori.
Non che mi dispiacesse – dico, il fatto di aver perso il treno. In fondo erano mesi che non rientravo a casa, e avevo anche cercato di dare a mamma e papà delle giustificazioni, tuttavia senza ottenere risposte. Non capivo se avevano deciso di dimenticarmi completamente (da quando preferii la città alla nostra abituale dimora di campagna), o se si ricordavano di me come ci si ricorda delle persone guardando le fotografie, o se sapevano o sentivano o prevedevano che prima o poi sarei arrivato da loro; alle venti e trenta, l’ora di cena. Sì, perché è bene sapere che quella è sempre stata l’ora della famiglia tutta riunita, e qualsiasi cosa uno avesse avuto da fare in qualsiasi giorno dell’anno, a quell’ora l’avrebbe senz’altro interrotta per mettere le gambe sotto il tavolo di casa; il babbo tornava dai campi o dal bar, io e mio fratello smettevamo di studiare, la nonna posava aghi e filo, la mamma metteva in tavola i suoi piatti deliziosi. Il problema era che pareva fosse vietato cenare fuori, o meglio: che non si potesse saltare la cena in casa. Tant’è che mi accadde spesso di cenare due volte, prima – per forza – in casa, poi magari fuori con gli amici.
Fu mio fratello il primo a spezzare la tradizione, dicendo che sarebbe andato per lavoro in un paese straniero e che tutto sommato ne aveva abbastanza di quell’obbligo assurdo di dover essere a casa a cena alle venti e trenta. Se ne andò, dunque e non tornò più; ogni tanto però scriveva, dicendo che anche lì dove si trovava lui doveva rientrare alle venti e trenta per la cena (che incubo!), me se non ce l’avesse fatta poteva benissimo cenare fuori, grazie al cielo!
Io ero arrivato in città per frequentare l’università, Scienze Matematiche. All’inizio tornavo sempre a casa, dopo aver seguito le lezioni; tuttavia vi erano giorni nei quali, vuoi per un ritardo del treno, vuoi per essermi dilungato in chiacchiere con qualche compagno di corso, non riuscivo a tornare per le venti e trenta. Quando succedeva, i miei erano capaci di mettermi il muso per un giorno intero e la cosa mi faceva un poco soffrire. Fu così che decisi di prendermi un piccolo appartamento alla periferia della città; e se ero in ritardo, potevo cenare quando volevo, e, a ben pensarci, anche con chi volevo o anche da solo. Quando ero certo di avere tempo in abbondanza per farmi comodamente il viaggio, allora tornavo dai miei alla casa di campagna: alle venti e trenta ero senza dubbio seduto a tavola con loro, e loro di questo erano molto felici. Magari poi passavo lì anche la notte e tornavo in città l’indomani.
Al terzo anno di studi universitari però dovetti trovarmi un lavoro part-time col quale pagarmi l’affitto, per non continuare a gravare sui miei; le ripetizioni che davo non bastavano. Lo trovai presso una piccola biblioteca di periferia, che già frequentavo a volte per studiare: vi andavo alle sedici e trenta, con l’incarico di riordinare gli scaffali ed eventualmente catalogare i nuovi arrivi; stavo lì fino all’ora di chiusura: le venti e trenta. Tutti i giorni tranne la domenica, che usavo quasi sempre interamente per studiare.
Quando i miei seppero questa cosa fu grande la loro delusione: capirono che avevo definitivamente scelto la città; ma gli promisi di richiedere almeno un permesso al mese per poter cenare con loro alle venti e trenta. E così feci, fino a sette mesi fa.
Da allora non ce l’ho più fatta: ho sempre avuto qualcosa ad impedirmi di salire sul treno per tornare a casa. Nonostante tutto, sarò sincero, a volte provo un po’ di nostalgia per quel momento di tutta la famiglia riunita, alle venti e trenta.
È che mi par d’essere sempre più prigioniero di questa stazione, dal giorno in cui finii sotto il treno; e benché ora sappia attraversare le pareti e non abbia più bisogno di dormire, devo ammettere che provo come una specie di fame, tutti i giorni verso le venti e trenta. Ma non riesco a salire i gradini del treno, lo vedo scivolare lontano.
Mi terrò la mia fame, e saprò con esattezza che ore sono.

(Em.mA)

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