tracce di storia del pensiero educativo: 13. IL NEOIDEALISMO E LA RIFORMA DELLA SCUOLA ITALIANA

  1. IL NEOIDEALISMO E LA RIFORMA DELLA SCUOLA ITALIANA

Durante i primi anni del XX secolo, la pedagogia italiana è animata dai dibattiti sull’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, sulla statalizzazione della scuola elementare, sull’istituzione di una scuola media unificata. Quest’ultima questione soprattutto è particolarmente accesa; si tratta infatti di iniziare a pensare di mettere insieme, nella stessa scuola, ragazzi provenienti da ceti sociali diversi e con differenti aspettative di vita: non è ancora accaduto di trovare nella medesima aula chi in futuro avrebbe fatto l’avvocato o il medico e chi avrebbe fatto l’artigiano o l’operaio. Inizialmente prevale in merito la proposta di Geatano Salvemini (1873-1957), cioè quella di una scuola media con latino distinta dai corsi tecnico-professionali e dai corsi post-elementari complementari destinati a coloro che non avrebbero mai frequentato né il liceo né gli istituti tecnici pur dovendo assolvere l’obbligo (che è stato portato a dodici anni). Salvemini è convinto che la scuola non sia in grado di cancellare le differenze sociali, può svolgere al massimo una funzione di promozione culturale ai più meritevoli delle classi meno abbienti, così come ha il dovere di orientare a lavori esecutivi i borghesi meno meritevoli. Egli è soprattutto motivato nel cercare di elevare in qualche modo le classi popolari al fine di pervenire alla “società socialista” di cui è un forte sostenitore.

L’area opposta a quella di Salvemini è composta dal gruppo dei neoidealisti, i quali comunque convergono con lui nel combattere la possibilità di una scuola media unificata senza il latino. La scelta ideologica neoidealista è però quella per una cultura al servizio della classe dirigente; l’idea di rendere uguale per tutti il percorso di studi è ritenuta una forma di democraticismo massonico che rovina la qualità dell’educazione umanistica, la quale senz’altro deve essere depurata dal nozionismo e dagli eccessivi formalismi, ma non certo contaminata da materie tecniche e professionali. Lombardo Radice (1879-1938) si inserisce nella polemica senza disprezzare l’indirizzo utilitaristico della classe medio-borghese, fatta di gente pratica che ha di fatto promosso l’istituzione dei corsi professionali (distinti sia dal liceo che da quel miscuglio didattico che erano gli istituti tecnici); accusa però questa medesima classe sociale di non essersi accontentata di quanto ottenuto, ma di aver preteso di rendere più pratici anche gli studi secondari e persino l’università, dimenticando che per i giovani che sarebbero stati la futura classe dirigente il valore pratico doveva essere lo stesso valore ideale, frutto di una completa preparazione spirituale e morale. Perciò, la borghesia intellettuale deve prepararsi a dirigere la società rendendo acuta la mente, mentre per il popolo e per la piccola e media borghesia è più che sufficiente la preparazione professionale.

Radice fonda e dirige dal 1907 al 1913 la rivista I nuovi doveri, voce pedagogica che polemizza contro la politica scolastica governativa ritenuta massonica e demagogica, critica gli avanzi metodologici derivati dall’herbartismo e dal positivismo, afferma i valori della pedagogia dello Spirito di stampo hegeliano (da cui il nome di neoidealisti o neo-hegeliani a questa categoria di pensatori) che non sopportano altre leggi che quella del proprio sviluppo interiore; sostiene inoltre una battaglia per dimostrare che i neoidealisti sono i veri democratici, i democratici nell’animo, non perché auspicano scuole unitarie che accolgano i figli di tutte le classi sociali, ma perché sono convinti della selettività della scuola da cui sarebbero emersi i pochi eletti quali anima di tutto il popolo (questo perché l’avanguardia è sempre di pochi). I molti, ossia i meno meritevoli della borghesia e coloro che provengono dalle classi lavoratrici, si sarebbero accontentati delle scuole post-elementari di carattere addestrativo e pratico.

La rivista di Radice è in realtà una sola delle voci simili che risuonano in quegli anni: lo stesso dogma ideologico è infatti sospinto anche da La critica di Gentile e Croce sul piano storico-filosofico e da La voce di Prezzolini e Papini sul piano artistico-letterario. Giovanni Gentile (1875-1945) è senza dubbio più ascoltato dello stesso Radice. Segnalatosi appena ventiquattrenne con il saggio Il concetto scientifico della pedagogia in cui critica l’herbartismo (accusandolo di “pedagogismo”, cioè di aver trasformato la pedagogia in un complesso di norme astratte e di averne dedotto altrettanto astratte metodologie operative) e sottolinea come l’unico sbocco scientifico possibile della pedagogia, intesa come filosofia dell’educazione, deve consistere nel suo presentarsi come scienza dello Spirito che si forma, dell’Idea che si sviluppa come libero pensiero; così inteso, il lavoro educativo necessita di un rapporto spirituale tra maestro e allievo, rapporto nel quale l’autorità del primo garantisce al secondo l’attualità dello Spirito, che è l’essenza stessa della libertà.

Proprio questa ricerca di ciò che di spirituale può avere la formazione umana, induce Gentile ad una proposta che all’epoca fa scalpore per la sua valenza sia pedagogica che politica: quella di inserire l’insegnamento della religione cattolica nella scuola elementare; il dibattito in materia era già acceso da tempo e il fatto che ora tale proposta venga da una persona dichiaratamente laica è clamoroso. Gentile è portatore di un’idea fortemente classista della società: la funzione spirituale della formazione deve perciò essere garantita fin dai primi anni dell’istruzione per inculcare nei piccoli studenti il senso etico e la moralità necessarie a formare la futura elite dirigente; quindi, il primo vero supporto morale nel percorso scolastico non può che venire dalla religione cattolica, che poi sarebbe stata sostituita negli studi superiori dalla filosofia, per coloro che lì sarebbero arrivati (i meritevoli). Ciò avrebbe favorito il crescendo dell’autentica cultura laica che grazie alla libertà della ragione garantita dalla filosofia (come già insegnava Hegel) avrebbe gradualmente e definitivamente superato le influenze della religione.

Nel 1922 Gentile viene eletto ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini e si mette subito all’opera per il suo progetto di rinnovamento dell’istruzione che passerà alla storia come riforma Gentile, favorito nel suo intento da una legge in vigore dal secolo precedente che gli permette di trasformare un decreto in legge senza passare dal dibattito parlamentare. Così può realizzare quanto i neoidealisti da anni si auspicano. Tra l’altro, nel 1923 riceve la tessera ad honorem del partito fascista, quale portavoce di un pensiero politico in grado di realizzare le idee liberali.

In nome dei classici principi di libertà, le mosse operate da Gentile sono:

–      soppressione della sezione fisico-matematica degli istituti tecnici, unico indirizzo che finora consentiva ad un numero selezionato di persone di accedere alle facoltà universitarie scientifiche;

–      fondazione del Liceo Scientifico, unica scuola che d’ora in poi ha uno sbocco universitario proprio in campo scientifico;

–      abolizione della scuola tecnica (messa in auge dalla legge Casati del 1859) che assolveva la doppia funzione di scuola professionale superiore (per chi avrebbe interrotto gli studi a 14-15 anni) e di corso preparatorio agli istituti tecnici (per chi avrebbe proseguito gli studi oltre i 15 anni); apertura di una scuola preparatoria post-elementare della durata di un biennio che recupera le funzioni della scuola tecnica abolita;

–      trasformazione della vecchia Scuola Normale triennale nell’Istituto Magistrale quadriennale (cui non è concesso il quinto anno perché si tratta di una scuola abilitante ad una professione, non di un Liceo preparatorio all’università); oltretutto, dal Magistrale toglie l’attività di tirocinio, ritenendo che ai futuri insegnanti sarebbe stata sufficiente una buona dose di cultura perché chi sa, sa anche insegnare. Tale scuola era del resto frequentata per lo più da ragazze della piccola e media borghesia e da pochi ragazzi delle classi più povere: questo è uno dei motivi, probabilmente, per cui il Magistrale rimane relegato ad una condizione di inferiorità rispetto alle altre scuole;

–      nella scuola elementare (l’unica vera scuola “per molti”, della cui riforma si occupa prevalentemente Radice, su incarico di Gentile) viene introdotto dell’insegnamento della religione cattolica come disciplina fondamentale, per i motivi di cui s’è detto in precedenza. Questa innovazione è anche un’abile mossa politica che porta alla firma del Concordato tra Stato e Chiesa nel 1929, con un chiaro obiettivo anti-socialista e anti-progressista nel quale entrambe le parti si trovano in assoluto accordo. Inoltre, vengono introdotte nelle elementari alcune materie estetiche (disegno e canto) ed eliminate tutte le discipline di carattere professionale (con la conseguenze che il popolo e la bassa borghesia adesso vivono la scuola come un perditempo…);

–      innalzamento dell’obbligo scolastico a 14 anni (senza però offrire strumenti giuridici e pedagogici per attuarlo davvero).

 

L’idea della valorizzazione della religione fin dai primi anni di istruzione è uno dei cavalli di battaglia anche di Benedetto Croce (1866-1952), il vero ideologo neoidealista italiano. Egli non si dedica mai realmente alla politica (anche se nel 1920 viene inaspettatamente nominato ministro della Pubblica Istruzione – prima di Gentile – più per meriti accademici e culturali che non per abilità amministrative). Secondo lui la scuola non può non essere religiosa perché, anche se non necessariamente credenti, siamo pur tuttavia tutti cristiani.

Croce appoggia la riduzione delle scuole medie e secondarie statali, favorendo l’allargamento delle scuole private, specie se di matrice cattolica. Facile pensare come contro di lui si scateni l’area socialista della cultura e della politica italiana, soprattutto quando rimette in vigore il selettivo esame di ammissione alle facoltà universitarie (col nome di licenza di Magistero) per limitare solo a pochi meritevoli l’accesso accademico. Egli è convinto che la selezione rappresenti la vera democrazia, poiché dà modo anche ai figli del popolo meritevoli di proseguire negli studi ed entrare a far parte della classe dirigente. È interessante notare come qui si vada oltre la divisione classista della società a favore di un percorso formativo basato sulla meritocrazia e finalizzato a premiare le menti più brillanti e più illuminate…anche se, come è facile intuire, a certi livelli di studio arriva più facilmente chi era economicamente in alto, in particolare dopo la diffusione dell’idea che le scuole private (costose) siano migliori di quelle pubbliche (gratuite). Non è comunque lontana da questo pensiero neoidealista l’idea di una sorta di aristocrazia culturale fondata su meriti e pregi intellettivi e morali più che su posizioni economiche rilevanti, anche se Croce in realtà non è particolarmente interessato all’istruzione inferiore: punta piuttosto sugli anni formativi nei quali l’attitudine filosofica del giovane studente si è già sufficientemente sviluppata.

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