tracce di storia del pensiero educativo: 12. I PRINCIPI DELLA PEDAGOGIA ATTIVA E LE VIE DI UNA NUOVA EDUCAZIONE

I PRINCIPI DELLA PEDAGOGIA ATTIVA E LE VIE DI UNA NUOVA EDUCAZIONE

L’attivismo è un orientamento della pedagogia moderna, sviluppatosi tra il XIX e il XX secolo, volto a promuovere nell’insegnamento la libertà e la spontaneità dell’educando secondo i principi e i metodi della scuola attiva.

L’espressione scuola attiva (dal francese école active, in voga dal 1917 e diffusa da A. Ferrière insieme con quella equivalente école nouvelle, in italiano scuola nuova) indica il rinnovamento dei metodi di insegnamento e organizzazione scolastica che si è sviluppato nei paesi occidentali, per iniziative sia private sia statali; esso riguarda quelle istituzioni che tendono a promuovere nella pratica educativa la libertà e la spontaneità dell’educando, contrapponendosi con forza all’intellettualismo e al nozionismo formale dell’insegnamento tradizionale. Tale rinnovamento (che negli USA fa riferimento all’espressione progressive school, cioè scuola progressiva) è già avviato nei paesi più avanzati quando lo svizzero Ferrière, allo scopo di coordinare tutte le correnti innovatrici, fonda nel 1899 il Bureau international des écoles nouvelles (ufficio internazionale delle scuole nuove), che dura fino al 1925. Il rapido moltiplicarsi delle scuole attive in tutto il mondo porta nel 1921, a Calais, in occasione d’un congresso educativo internazionale, alla fondazione della Ligue internationale pour l’éducation nouvelle (lega internazionale per la nuova educazione), che dà il via alla pubblicazione di tre periodici: The new era in Inghilterra, Pour l’ère nouvelle in Francia e Das werdende Zeitalter in Germania. In questi Paesi si susseguono esperimenti di scuola nuova di notevole portata, in particolare quelli di Decroly in Belgio, di Boschetti Alberti in Svizzera (che ha avuto nell’Institut J.-J. Rousseau fondato nel 1912 a Ginevra e nell’Università della stessa città i maggiori centri di studio delle metodologie per le nuove realtà educative, oltre che i più fervidi sostenitori di questo movimento, tra i quali spicca il già citato Ferrière), di Dewey negli USA, delle sorelle Agazzi e della Montessori  (di cui s’è già detto) in Italia, dove i principi della scuola attiva vengono divulgati dalla rivista L’Educazione nazionale, creata e diretta tra il 1919 e il 1933 da Radice (dopo la seconda guerra mondiale sorgono in Italia diversi villaggi del fanciullo o città dei ragazzi, che sperimentano i metodi attivi).

La nuova interpretazione educativa, da una parte, seguendo le orme dei classici della pedagogia moderna (Rousseau, Pestalozzi, Froebel, ecc.) dà grande importanza al gioco e al lavoro, in cui si rivelano concretamente le attitudini e si sviluppano e maturano le spontanee abilità del fanciullo; dall’altra parte, ricorre ai dati della psicologia sperimentale per aiutare l’orientamento professionale e per strutturare scuole mirate alla risposta del bisogno.

 

12.1 Ovide Decroly (1871-1932)

Belga, discendente da una famiglia di artigiani e severamente educato secondo i principi di una “laboriosa religiosità”, Decroly fin da piccolo si occupa di attività manuali e dello studio della natura. Dopo gli studi di medicina e la specializzazione in malattie nervose e mentali, apre nel 1901, alla periferia di Bruxelles, un istituto speciale per bambini ritardati e il Comune lo incarica della vigilanza psico-sanitaria delle scuole. Nel 1907, accanto al primo istituto, apre una scuola primaria per bambini normali con l’intento di applicare quanto sperimentato negli anni precedenti, dando il via al percorso che lo porterà all’idea della funzione globalizzatrice della conoscenza. Questa scuola prende il nome di Ermitage ed ha come motto: scuola per la vita attraverso la vita. Ci sono molti elementi che accomunano l’esperienza di Decroly a quella della Montessori: anno di nascita, formazione di stampo positivistico e motivazione religiosa, studi medici e specializzazione in neuropsichiatria, la cura dei bambini anormali prima di quelli normali, l’apertura dell’Ermitage nello stesso anno della prima Casa per Bambini. Ma tra i due risaltano anche notevoli differenze: la motivazione sociale di Decroly è conseguente agli studi storico-psicologici dei suoi casi, è  quindi attento allo sviluppo della psicologia infantile,  cerca sempre di dare risposte scientificamente fondate ed elabora il concetto del globalismo cognitivo rifacendosi direttamente ai principi della scuola attiva; la Montessori possiede una motivazione sociale immediata, quasi missionaria, si rifà a studi datati e propone letture originali dei casi, non collegate però a nessuna ricerca psicopedagogica.

La tematica ricorrente della pedagogia decrolyana – divulgata solo nel 1921, ma frutto della rielaborazione di tutta la sua precedente esperienza – è quella dei centri di interesse. Egli ha sempre puntato l’attenzione sugli interessi del bambino, ritenendo che l’interesse (inter-esse = legame che riunisce due realtà) sia nel bambino la spinta di ogni sua azione: nell’insegnamento tradizionale c’era sì tutto il necessario per l’apprendimento, ma mancava quel legame capace di unire i diversi pezzi della conoscenza in rapporto al soggetto che apprende; mancava quindi l’interesse funzionale evidente, efficace ed attivo, ciò che avrebbe permesso alla giovane mente di orientarsi nel mondo complesso del nozionismo. Questo non significa però che gli insegnamenti devono adattarsi al bambino, come avrebbero voluto i pensatori più libertari; quel che conta è arrivare a suscitare negli allievi i dovuti interessi grazie ai quali avrebbero superato le loro difficoltà. Inoltre, ciò che è conseguito perché interessante non può essere fuori dalla portata di chi lo desidera e tutti i problemi formativi sarebbero risolti se riuscissimo a far apparire all’allievo ciò che egli deve nell’ambito di ciò che egli vuole.

Questa attenzione per l’interesse non è certo nuova: già Herbart ne aveva parlato e Dewey ne stava sperimentando e divulgando la funzionalità, né originale era l’idea della globalità dell’apprendimento, anch’essa già sfruttata da Herbart; ma Decroly inserisce questi discorsi in un contesto psicopedagogico particolare: secondo lui, l’insegnamento formale pretendeva di inculcare nozioni nel bambino e lo faceva suddividendo l’apprendimento in materie differenti, molto spesso riversate in lui a comparti stagni senza che nessuno si preoccupasse di connetterle tra loro. Dewey aveva già affrontato il problema in Democrazia e Educazione – come vedremo; Decroly tenta una risposta a questo rompicapo costruendo un sistema metodologico fondato proprio sulla teoria dei centri di interesse: tali centri (detti anche idee perno) sono ricavati dai quattro bisogni istintivi e permanenti dell’uomo – cibo, abiti e casa, difesa, lavoro e riposo. Essi sono combinabili con sei determinazioni aventi sempre come centro l’uomo: l’uomo e l’universo, l’uomo e i suoi simili, l’uomo e i minerali, l’uomo e gli animali, l’uomo e le piante, l’uomo e il proprio organismo. I centri così sistemati (ad es.: lo studio di abitazioni di altri luoghi e di altri tempi) sono utilizzabili in modo variegato, purché sempre adattati all’età del bambino grazie ai criteri della osservazione, della associazione, della espressione.

– L’osservazione è il contatto diretto con la realtà, incontrata per lo più fuori dalla scuola e a contatto con la natura, nell’ambiente vicino al bambino coi suoi avvenimenti quotidiani, evitando cioè la presentazione di casi insoliti o impressionanti (un animale domestico può insegnare molto di più delle immagini di animali rari su un libro).

– I contenuti dell’osservazione rimarrebbero però disordinati e improduttivi se non venissero organizzati con l’associazione: la capacità di radunare i dati osservati e ritrovati intorno ad un determinato centro di interesse. La storia e la geografia sono più fruibili dai bambini, se avvicinate in questo modo: è inutile insegnare la storia antica ad un individuo che ancora non ha la capacità di rappresentarsi mentalmente il passato, così come è inutile insegnare i Paesi lontani a chi non sa ancora come sono dislocati quelli prossimi a lui. Ne consegue che l’apprendimento storico, ad esempio, dovrebbe essere svolto al contrario di quanto avviene abitualmente: cominciare dai fatti più vicini nel tempo e retrocedere gradualmente verso le epoche passate.

– Il passo successivo è quello dell’espressione: esprimersi significa portare a compimento e trasmettere il frutto di un’attività, implica il controllo, la verifica e la correzione di quanto va espresso e la scelta delle modalità di comunicazione. Decroly, contrariamente alla scuola tradizionale, predilige l’espressione concreta, quella cioè che passa attraverso la produzione di attività pratiche, manuali e funzionali al sistema neuro-muscolare della persona, perché permettono di affinare i quadri percettivi gli apparati senso-motori ed avere di conseguenza migliori capacità riflessive ed esecutive. L’allievo così può anche accorgersi da solo dei suoi errori e correggersi, quasi senza bisogno di un insegnante, cosa questa che sviluppa bene e meglio le capacità di autonomia e ovviamente migliora l’apprendimento. Tra le attività espressive Decroly colloca anche quelle estetiche: il modellismo e il disegno, quest’ultimo utilissimo come propedeutica alla scrittura; il teatro, strumento ideale dell’espressione di sé; e la musica, a partire dall’imitazione dei suoni naturali.

Decroly riesce così a cogliere l’orientamento della psicologia moderna: supera il pregiudizio secondo cui le idee si formano come associazione di percezioni comuni in un determinato oggetto (costruendo così i concetti, sempre più universali) e ne deduce che le percezioni non sono semplici, ma possono comportare una serie di dati che, assunti globalmente, permettono l’apprendimento. Questa attitudine è naturale: il bambino impara più facilmente la parola intera, più che non le lettere separate tra loro che formano quella parola…perciò è bene globalizzare per insegnare e solo in un secondo momento procedere all’analisi degli elementi particolari, quando cioè il bambino avrà acquisito un numero più che soddisfacente di immagini, frasi e parole diverse. Tutto questo senza mai dimenticare, da parte di chi educa, lo stretto legame tra l’apprendimento e la vita vissuta del bambino.

 

12.2 John Dewey  (1859-1952)

Americano del Vermont, discendente di profughi puritani, di formazione hegeliana (è insegnante di filosofia prima all’Università del Minnesota, poi in quella di Chicago, infine alla Columbia University di New York), convinto della forza interna di maturazione e autoformazione e del fatto che l’azione sia da prediligere perché realizza la verità, Dewey sale alla ribalta della pedagogia mondiale quale iniziatore di un modo nuovo di fare educazione che trova corrispondenze europee nell’opera di attivisti come Decroly e la Montessori, ma senza dubbio si impone per la sua originalità. Il libro Democrazia e Educazione, scritto nel 1910 e pubblicato negli Stati Uniti nel 1916, costituisce la summa del suo pensiero pedagogico, espresso in innumerevoli opere, tra le quali ricordiamo: Il mio credo pedagogico (1897), Scuola e Società (1899), Etiche (1908), Esperienza e Natura (1920), Arte ed Esperienza (1934), Esperienza e Educazione (1938).

Per comprendere le sue posizioni è bene dare uno sguardo alla situazione della scuola elementare statunitense nella seconda metà del XIX secolo: mentre si cercava di superare i pregiudizi religiosi e morali e mentre cresceva la consapevolezza della necessità di una generalizzazione dell’istruzione, la scuola degli USA si trovava divisa in due fronti opposti; da una parte c’era Francis William Parker (1837-1902), definito dallo stesso Dewey “il padre dell’educazione progressiva americana”, che proponeva i primi esperimenti di attività espressive e manuali a scopo formativo, sostituendo l’interresse dell’educando al dovere dell’applicazione ripetitiva e utilizzando le materie estetiche (arte, musica,…) e tecniche (intaglio, giardinaggio,…) non come esercizio per acquisire abilità pratiche, ma come strumenti di educazione della personalità. Dall’altra parte stavano gli oppositori di questa metodologia, capeggiati da William Harris (1835-1909), convinti che cedere agli interessi degli allievi significasse solo volersi accattivare le grazie del bambino e quindi viziarlo, ostacolando così la formazione di un carattere robusto, e ancora piuttosto scettici nei confronti di un insegnamento allargato a tutti i ceti sociali.

Dewey interviene nella polemica con il saggio Scuola e Società (1899), schierandosi dalla parte degli innovatori: le modificazioni che sopravvengono nel metodo e nei programmi sono prodotti dalla situazione sociale mutata, sono uno sforzo di andare incontro alle esigenze della nuova società in corso di trasformazione. L’industrialismo sta cambiando l’aspetto della terra, la vita pubblica e privata e le disposizioni etiche e religiose degli individui sono profondamente mutate: questa rivoluzione tocca necessariamente anche l’educazione. Prima dell’era industriale i bambini entravano presto a far parte del processo produttivo, condividendo ed ereditando il lavoro dei familiari; ora è necessario rifondare la scuola, senza tuttavia distruggere il passato, anzi, facendo tesoro della qualità dell’apprendimento frutto dell’esperienza diretta (learning by doing) facendo sì che proprio la scuola diventi una forma schietta di attiva vita in comune, non un luogo isolato dal mondo nel quale apprendere lezioni. Dewey ritiene che le nuove e molto più funzionali necessità pedagogiche siano il lavoro formativo e la cooperazione, al posto del vecchio insegnamento nozionistico e della disciplina costrittiva: ciò avrebbe costituito il cuore di una nuova società democratica.

Si tratta di rivalutare l’esperienza attiva come strumento di autodisciplina e apprendimento diretto. Dewey accetta la nuova realtà industriale ed è consapevole delle problematiche sociali che questa trasformazione si porta appresso; ma notevoli sono anche i benefici del progresso: maggior conoscenza dei fatti naturali, economici e sociali, più tolleranza e allargamento dei rapporti fra gli individui; l’obiettivo ora è quello di trasformare una società industriale non ancora umanizzata in una società che impieghi le sue conoscenze a favore di un’autentica cultura democratica, garantendo la partecipazione di ogni essere umano alla formazione dei valori che regolano la vita associata. Democrazia è un sistema di valori elaborato da tutti, nel quale il ruolo della religione, della filosofia e della morale non è quello di insegnare verità preconfezionate, ma quello di essere strumenti di ricerca e di elaborazione. Dio stesso, simbolo degli ideali che gli uomini perseguono, è fondamentale per realizzare in modo operativo l’unione dell’ideale e del reale; l’uomo possiede la forza quasi divina dell’intelligenza creativa, originale capacità di modificare l’ambiente – aspetto principale dell’operatività della conoscenza.

Di fondamentale importanza è per Dewey la presenza dell’educatore: un ambiente non organizzato offre un’esperienza formativa disordinata e fuorviante. Il processo formativo, invece, consiste principalmente in attive esperienze ambientali – non in qualunque esperienza; perciò la guida dell’adulto è necessaria: sta all’educatore rendersi conto in quale direzione si muove un’esperienza, l’educatore deve saper presentare una certa conoscenza del passato (ideologie e abitudini) perché questo serva a valutare il presente e a prevedere il futuro. Le scuole progressive non sono quelle che semplicemente hanno lasciato i metodi tradizionali di insegnamento per confidare in modo assoluto nella spontaneità dell’allievo abbandonandolo a se stesso: la spontaneità emotiva ed espressiva è un dato di partenza di massimo riguardo, ma va guidata e considerata un traguardo ideale. Analogamente alla Montessori, anche per Dewey l’esperienza del bambino deve avvenire in forme proprie e la sua conoscenza deve alimentarsi di interazioni con l’ambiente alla sua portata – ricche per lui di significato. L’educazione non è preparazione alla vita futura, è già vita attuale; perciò i giovani in crescita sono già attivi partecipanti della vita sociale, non ne sono solo candidati. Preparare alla vita futura ha senso soltanto se significa educare fin da subito tutte le capacità personali e man mano perfezionarle. A differenza della Montessori, però, Dewey non prevede metodologie particolari (a parte il materiale didattico adatto all’età degli allievi): semplicemente sottolinea che l’ambiente scolastico deve essere semplice e in armonia con le capacità effettive dell’allievo. A lui interessa ribadire che l’educazione è funzionale a se stessa, in quanto concepita come una continua e costante rivalutazione dell’esperienza (il processo e il fine dell’educazione sono la medesima cosa); in linea con questa affermazione, è facile considerare come l’esperienza educativa in un ambiente socializzante (quale dovrebbe essere la comunità scolastica) possa formare individui che migliorino quello stesso ambiente in modo da venirne essi stessi migliorati ed essere perciò in grado di contribuire domani al perfezionamento di un altro ambiente sociale che a sua volta perfezionerà ulteriormente loro stessi…e via, a cerchi sempre più larghi, fino a che l’educazione verrà socialmente attuata come democrazia.

Nell’esperienza di apprendimento, il bambino deve essere attivo, cioè vivo e interessato. Quando Dewey parla di interesse, senz’altro ha presente ciò che già intendeva Herbart, ma fa un passo avanti: il vero interesse per lui è il legame attivo fra un oggetto o un’azione e l’Io, legame che non solo motiva l’apprendimento, ma anche lo accompagna e consente apprendimenti ulteriori e impreviste connessioni. L’interesse è l’unico sforzo possibile all’educando: per ciò che ritiene interessante egli è disposto a mettere in campo tutte le energie di cui dispone; se si pensa poi che gran parte delle cose interessanti sono condivise coi compagni e quindi raggiungibili attraverso un lavoro di gruppo, è innegabile quanto l’ambiente scolastico sia funzionale ad intensificare le relazioni e a creare un senso di appartenenza comunitario. Le attività inoltre articolano gli apprendimenti, nel senso che in ogni attività si ritrovano un principio direzionale, una progettualità, un procedimento graduale, sostegni scientifici e opzioni espressive precise; il lavoro sembra essere allora il fattore formativo principale, se viene inserito con tutte le sue implicazioni sociali e relazionali nell’istituzione educativa – al contrario di quanto affermava  Marx, che pretendeva di portare il lavoro dentro l’educazione. Il lavoro produttivo per gli educandi è formativo nella scuola, non nella fabbrica.

 

(…) ed è in particolare vero che una società, che non solo cambia, ma che ha come ideale un cambiamento che la migliori, avrà norme e metodi di educazione diversi da quella che mira solamente alla perpetuazione dei suoi costumi. (John Dewey, Democrazia e Educazione)

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