tracce di storia del pensiero educativo: 11. IL RISORGIMENTO ITALIANO, TRA RIFORME E SVOLTE EDUCATIVE

IL RISORGIMENTO ITALIANO,  TRA RIFORME E SVOLTE EDUCATIVE

Il Positivismo nella seconda metà dell’800 arriva anche in Italia, sebbene in forma più attenuata. Nel nord e nel centro del Paese si ha un discreto sviluppo industriale, mentre ancora si stanno sanando i problemi legati all’unità nazionale; a sud invece vi è un elevato indice di analfabetismo. L’obbligo scolastico è limitato ai primi due anni di scuola, ma spesso non viene seguito. Inoltre, si accende un forte dissidio tra Stato e Chiesa, per via della prima laicizzazione della scuola piemontese nel 1848: gli atteggiamenti delle due istituzioni si fanno sempre più inconciliabili, creando una spaccatura tra le posizioni della pedagogia cattolica tradizionale e quelle della pedagogia laica emergente. Questo fatto viene rinforzato dal concetto – utilizzato negli ambienti di cultura – di socialismo pedagogico, termine col quale si intende nominare le forme laiche dell’educazione (a cui si attribuisce anche la diffusione delle idee positivistiche) che, organizzate e guidate dallo Stato, stanno sempre più emancipandosi dalle agenzie originarie dell’educare, quali la famiglia e le scuole religiose. È difficile comunque attribuire solo al Positivismo il pensiero dei pensatori pedagogici italiani di questo periodo: più che altro si tratta di forme ibride, nella quali emergono spunti delle nuove correnti ideologiche, mischiati però con la potente tradizione italiana legata al culto della famiglia, con la necessità di adeguare l’istruzione e l’educazione della tradizione allo sviluppo industriale sempre più diffuso, con le influenze culturali di provenienza letteraria (realismo). Tra le voci più importanti in questo ambito, vale la pena ricordare Francesco De Sanctis (1817-1883), autore di una riforma scolastica (pensata per la Sicilia, ma poi non applicata perché esiliato a Torino) nella quale spicca il rifiuto dell’educazione formale: l’educazione deve essere reale, non ideale, perché è il realismo il grande educatore dell’ideale e perché non ritiene vero che solo il rispetto dei formalismi tradizionali assicurino il livello intellettuale appropriato; egli stesso cerca di applicare forme nuove di insegnamento: come docente accademico, alimenta una relazione alla pari con i suoi studenti; come governatore, nonostante i suoi interessi umanistici, dà largo spazio alle nuove scuole tecniche ed è favorevole ai dibattiti culturali che coinvolgono contemporaneamente scienza, filosofia e letteratura.

La combinazione tra l’analisi dei problemi reali e il mantenimento di un atteggiamento socio-politico di stampo tradizionale è la caratteristica del più grande pedagogista positivista italiano, Aristide Gabelli (1830-1891), secondo il quale una migliore educazione per tutti avrebbe risolto i problemi sociali ed economici del Paese. Nominato provveditore centrale agli studi con il compito di pensare e attuare l’obbligo scolastico, propone una riforma di programmi per le scuole elementari, finalizzata ad una formazione che vada oltre i consueti saperi di base: introduce la ginnastica e il canto, insiste per l’osservazione del “mondo dei fatti” al posto del nozionismo, sottolinea la necessità di avere maestri capaci di impartire disciplina scolastica, intendendo con essa il più poderoso strumento nelle mani dell’insegnante, il quale, da parte sua, avrebbe incentivato la fiducia vicendevole e le azioni collaborative, in modo che la scuola possa davvero insegnare la vita sociale, gente retta e tranquilla, solida e seria. Pur essendo di stampo laicista, Gabelli mantiene l’insegnamento della religione cattolica perché essa trasmette il senso dell’ordine; anche con la religione però si deve avere un approccio non dogmatico, ma vicino al senso religioso comune a tutti gli uomini di buona volontà, anche non credenti.

 

11.1 Il sistema preventivo, vittoria dell’educazione

Il genio assoluto dell’educazione italiana in tempo di unificazione e sviluppo industriale, paradossalmente non è un positivista, bensì un uomo che opera in una situazione storica nella quale si debbono fare i conti con quelle problematiche che già avevano ispirato Gabelli, ma che con lui trovano soluzioni assolutamente nuove e innovative: San Giovanni Bosco (1815-1888), comunemente noto come don Bosco, il fondatore degli Istituti Salesiani. Nato contadino, con grande forza di volontà impara a leggere e a scrivere per rispondere al suo desiderio di farsi sacerdote, che realizza nel 1841, diventando subito cappellano delle carceri di Torino, dove può immediatamente notare come la mancanza di istruzione sia la causa principale di comportamenti criminosi: se fossi cresciuto in città, e se mi fosse mancato il pane, probabilmente anch’io sarei oggi tra questi sventurati, scrive, sottolineando quanto l’influenza ambientale possa incidere sulla formazione del carattere dell’individuo e quindi compromettere le sue scelte di vita. La sua intuizione è quella di elevare il lavoro a strumento primario di educazione e rieducazione: l’uomo è nato per lavorare […] e con “lavorare” intendiamo l’adempimento dei doveri del proprio stato, sia di studio, sia di arte o di mestiere; mediante il lavoro, miei giovani, potete rendervi benemeriti della società, della religione, e far bene all’anima vostra. Questa esaltazione del lavoro quale strumento che nobilita garantendo anche la bontà del comportamento dell’uomo, non è certo di derivazione della pedagogia cattolica tradizionale, ma piuttosto è di stampo borghese (forse l’unico suo aggancio religioso può essere quello calvinista puritano…ma con scopi ben differenti).

Don Bosco apre il primo Oratorio Salesiano accogliendovi bambini e ragazzi poveri o abbandonati, dando loro un minimo di istruzione, occupandosi della loro formazione professionale, aiutandoli a trovare un lavoro. Quest’ultimo elemento metodologico (non solo insegnare, ma anche trovare lavoro) favorisce la grande e rapida diffusione degli Oratori Salesiani in Italia e nel mondo; intorno ad essi sorgono poco per volta dormitori, mense, laboratori, officine, aule e locali di aggregazione e intrattenimento. Gli istruttori sono inizialmente veri e propri artigiani (falegnami, calzolai, fabbri, fonditori, tipografi), alcuni sacerdoti e qualche educatore e insegnante. Tutti costoro si impegnano a trasmettere la medesima disciplina, con lo scopo di elevare moralmente e materialmente le condizioni di vita dei giovani. Nel 1877 don Bosco scrive per i suoi Istituti un regolamento che prende il nome di Sistema preventivo dell’educazione della gioventù, diametralmente contrapposto al più comunemente usato sistema repressivo. Il sistema preventivo si fonda su ragione, religione e amorevolezza, esclude i castighi e consiste nel far conoscere i regolamenti di un istituto e sorvegliare in modo che gli allievi abbiano sempre sopra di loro l’occhio vigile del Direttore e degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano da guida ad ogni evento, diano consigli e amorevolmente correggano, che è come dire: mettere i giovani nell’impossibilità di commettere mancanze. Il sistema repressivo, al contrario, avrebbe potuto senz’altro impedire dei disordini, ma difficilmente avrebbe migliorato le persone, in particolare i giovani che spesso non dimenticano i castighi, ma anzi vorrebbero vendicarli. La prevenzione invece può rendere amico l’allievo, che nell’educatore vede un benefattore che lo avrebbe avvisato, reso buono, liberato dai dispiaceri e dal disonore.

La modernità di questo metodo pedagogico ha enorme successo ed è sostenuto sia dalle istituzioni ecclesiastiche che da quelle laiche (don Bosco diventa così il ponte che riavvicina Chiesa e Stato); intervenendo nel settore della formazione artigianale, i Salesiani colmano quel vuoto che si è creato con la scomparsa delle corporazioni e che si è ampliato con l’avvento dell’era industriale per la quale erano diventati indispensabili operai e tecnici specializzati. Il campo della tipografia è quello che raggiunge il successo maggiore e apre le porte di una stabile pedagogia aziendale salesiana: la tipografia di don Bosco redige e pubblica il Bollettino Salesiano (rivista ancora oggi diffusa nel mondo), nonché un numero notevole di testi per la scuola e di libri di vario genere, opera che precorre le moderne collane economiche, a vantaggio di coloro che non possono permettersi i libri costosi fino a quel momento relegati nelle biblioteche, nelle accademie o nelle collezioni private di qualche signore.

Don Bosco e i suoi Salesiani, dunque, riescono ad affrontare il problema dell’istruzione e dell’educazione richieste dalle grandi trasformazioni sociali del tempo, adottando nuove strutture e nuovi strumenti, attuando con immaginazione, creatività e costanza azioni e iniziative di cui la società di allora era carente; non solo: il sistema preventivo, con tutte le sue modalità di attuazione, si è rivelato talmente valido che tutt’oggi le case Salesiane si pongono all’interno del tessuto sociale quale esempio di competenza educativa, in senso teorico e pratico.

Alla morte di don Bosco, nel 1888, si contano già più di duecento Istituti Salesiani tra Italia, Francia, Belgio, Spagna, Stati Uniti e Argentina: un imponente complesso di attività dislocate in tutto il mondo che alla fine dell’Ottocento coinvolge più di 400mila giovani!

A questo movimento don Bosco affianca, a partire dal 1872, l’Opera di Maria Ausiliatrice, il cui successo non è però comparabile a quello maschile, anche perché nel XIX secolo è probabilmente ancora presto parlare di formazione professionale al femminile; ciò nondimeno le Figlie di Maria Ausiliatrice contribuiscono anch’esse alla diffusione del sistema preventivo nel mondo e diventano di fondamentale importanza pochi decenni dopo la loro fondazione, quando il movimento degli asili e delle scuole per l’infanzia le vede in prima linea quali garanti di un’educazione genuina e amorevole. Fin da subito comunque esse si specializzano nella gestione delle scuole per la piccola e media borghesia, nell’organizzazione di educandati e nella preparazione delle maestre.

 

11.2 Chiesa, laici e questione sociale

Mentre don Bosco e i suoi Salesiani alimentano la loro missione educativa, nella seconda metà dell’Ottocento sorgono in Italia (in particolare proprio in Piemonte) le prime Società Operaie, grazie alla libertà di associazione concessa dallo Statuto Albertino nel 1848. Queste Società prendono l’eredità della antiche corporazioni, sorte ancora nel Medioevo e ormai definitivamente tramontate, tramandandone lo spirito pedagogico-didattico: propongono veri e propri seminari periodici sulle innovazioni tecnologiche e sui cambiamenti nel commercio dei prodotti e investono energie nella battaglia per migliorare l’istruzione e l’educazione, confluendo nelle Leghe per l’Insegnamento – peraltro mal viste agli occhi della Chiesa quali fautrici di una istruzione sobillatrice di ispirazione esclusivamente laica (di solito mazziniana e massonica). Il monopolio dell’istruzione era stato strappato agli ecclesiastici dalla legge Boncompagni del 1848, ma la Chiesa non sta certo a guardare: papa Pio IX nel Sillabo (1864) elenca gli errori morali dai quali i cattolici si debbono guardare, specificando che l’errore più grave è proprio quello svolto in campo pedagogico da coloro che si sono appropriati indebitamente dell’educazione dei giovani facendo a meno delle finalità religiose proprie dell’educazione stessa. Il Sillabo zittisce molti entusiasmi e riaccende il divario tra Stato e Chiesa; quest’ultima sembra ormai rassegnata a lasciare il controllo dell’istruzione secondaria agli enti pubblici (eccetto che per i ginnasi-licei dei Seminari, aperti comunque anche a coloro che non desideravano percorrere la carriera ecclesiastica), ma si tiene ben stretta quasi tutta l’istruzione elementare e popolare e la formazione professionale (grazie soprattutto ai Salesiani). Inoltre, in materia educativa i Gesuiti divulgano la loro rivista La Civiltà Cattolica, di taglio decisamente anti-liberale. Sia i ministri della Chiesa che i borghesi liberali sono però riuniti nella lotta contro il socialismo, al punto che arrivano ad una sorta di patto educativo comune che si prefigge di far fronte al socialismo ateo e sobillatore; il ministro Coppino nel 1888 stabilisce l’insegnamento della morale religiosa nelle scuole elementari accanto alla morale civile (anche se non piace troppo ai cattolici che vengano insegnate contemporaneamente la devozione religiosa e quella al Re e alla Patria, ma tant’è, si fa buon viso a cattivo gioco); la questione si protrae però a lungo, poiché molti enti locali sono gestiti da anticlericali spesso di sinistra. Si dovrà attendere fino al 1913, col Patto Gentiloni, perchè lo Stato riconosca ufficialmente che gli istruttori religiosi  siano abilitati all’insegnamento primario.

La zona d’azione più ampia – e quella che resta più lontana anche dal desiderio di essere istruita – è  quella rurale, specie al sud del Paese; la necessità di educare il popolo dei campi alimenta la cosiddetta questione sociale, ma l’istruzione per le masse contadine sembra ancora qualcosa di molto lontano e non necessario (nel 1894 una lega di latifondisti siciliani dichiara che l’istruzione per i contadini è da abolire, essendo una perdita di tempo) e le scuole di campagna, poco controllate, sono pressoché prive di organizzazione. Vale la pena ricordare, in questo contesto, il romanzo Cuore di Edmondo De Amicis (1846-1908), libro per ragazzi pubblicato all’inizio dell’anno scolastico 1886-87 come integrazione ai testi di scuola, libro in grado di andare a toccare i sentimenti di ogni ceto sociale. La questione sociale costituisce comunque il cuore pulsante di tutte le correnti innovatrici, sia riformiste che borghesi, e ciò permette la trasformazione dello spirito positivistico iniziale (secondo cui il progresso scientifico avrebbe risolto qualsiasi problema dell’umanità) nella ricerca di un controllo maggiore sull’uomo in formazione, portando gli esperti del tempo a cercare quei dati obiettivi che avrebbe permesso di valutare concretamente i processi di apprendimento; in parallelo però va sempre più maturando l’idea che l’uomo in formazione sia un individuo immerso in un’ampia rete di rapporti e che di conseguenza l’educazione debba considerarsi prima di tutto un’esperienza sociale e relazionale.

Di orientamento positivistico è Roberto Ardigò (1828-1920): a quarant’anni abbandona il sacerdozio per via di una crisi filosofica che lo porta ad escludere ogni principio di realtà non naturale e quindi non sperimentale; la stessa educazione perciò non può essere fondata su principi etico-religiosi, ma deve rispettare la natura psichica e morale dell’individuo, esercitandola con mezzi idonei a passare dal facile al difficile, dal semplice al complesso, dall’indistinto al distinto: lo scopo della formazione è di realizzare nell’allievo competenze intellettuali e comportamentali che dovranno ad un certo punto funzionare in lui come una seconda natura. Ciò è valido sia per l’apprendimento scolastico tradizionale sia per l’apprendimento delle consuetudini necessarie per agire e relazionarsi in società.

 

11.3 Donne attive

Il problema dell’educazione infantile dei figli dei lavoratori nei centri urbani e nelle zone sottoposte a crescente industrializzazione era divenuto sempre più sentito nell’Italia di fine Ottocento. È ormai superata l’idea che l’asilo debba semplicemente essere un luogo dedito alla custodia dei bambini; la metodologia più diffusa è quella di Froebel e dei sui Giardini, ma spesso non viene applicata  in modo adeguato: i doni ci sono ancora, ma probabilmente è andata persa la motivazione centrale dell’educazione froebeliana, ossia l’attività creativa del bambino (anche perché, come già è stato detto, mancavano gli spazi verdi necessari); questa situazione viene segnalata al Congresso Pedagogico Italiano del 1898 dall’insegnante Rosa Agazzi (1866-1951) che con la sorella Carolina aveva messo in atto azioni diverse nell’asilo di Mompiano (BS): le Agazzi intendono far sì che l’asilo non sia vissuto come una realtà distaccata o opposta a quella abituale del bambino, ma piuttosto come una continuazione della sua esperienza familiare, consentendo anche una sorta di personalizzazione dell’attività educativa; invece di utilizzare materiali precostruiti, usano come strumenti di insegnamento oggetti raccolti dai bambini stessi, al fine di costruire una specie di museo didattico. La scuola materna agazziana si propone di essere un contesto educativo concordante con la vita domestica e sociale del bambino, continuandola e perfezionandola da un punto di vista fisico (igiene e pulizia) e psicologico (recupero della serenità e del senso dell’autorità, solitamente compromessi nelle famiglie operaie); la centralità del metodo sta nel garantire la continuità tra asilo e opera materna, perciò il modello educativo messo in atto dalle educatrici delle Agazzi doveva adeguarsi il più possibile a quello insieme amoroso e fermo della madre.

Decisamente più fortunata per l’educazione infantile, visto il successo mondiale, è risultata però l’esperienza di Maria Montessori (1870-1952), incaricata nel 1905 di organizzare nuovi asili in un quartiere di Roma (il San Lorenzo) nel quale si erano resi disponibili dei palazzi (frutto di strane concessioni edilizie) ristrutturati in appartamenti per famiglie di lavoratori e spazi per i loro figli: il progetto socio-pedagogico della Montessori parte proprio da queste prime Case per Bambini che comprendono anche gli appartamenti degli inquilini, a loro volta chiamati a conservare con cura il loro ambiente domestico al fine di mantenere la casa abitabile e rispettabile; inoltre, questa attività degli inquilini può far risparmiare le spese di manutenzione della Casa per Bambini del palazzo (così che possa diventare gratuita) e alle madri compete l’obbligo di mandare i figli all’asilo puliti e di collaborare all’opera educativa della direttrice. Bisogna insomma meritarsi di avere in casa, a portata di mano, la scuola per i figli: se i bambini con le loro parole e con il loro aspetto avessero mostrato che in famiglia non si dava continuità al lavoro educativo dell’asilo, ciò sarebbe ricaduto inevitabilmente sulla possibilità delle famiglie di continuare ad abitare nel palazzo. Perché quest’opera si compisse era sufficiente un poco di buona volontà e lo spirito di collaborazione. La maestra-direttrice è anch’essa una coinquilina e da lei le madri dei bambini devono conferire almeno una volta a settimana.

La Montessori dunque mette la scuola in casa e insegna il concetto di casa come proprietà collettiva. Nelle sue strutture, è prevista anche la presenza di personale sanitario, fino ad allora a disposizione solo dei benestanti, tentando così una sorta di almeno apparente livellamento delle classi sociali; non solo: in queste comunità si sarebbe creata anche una via privilegiata di socializzazione tra persone di differente provenienza culturale e ambientale, soprattutto dopo l’apertura anche alle classi borghesi e aristocratiche.

La Montessori di fatto è la prima in Italia ad affrontare il problema della politica educativa e sociale dalla parte delle madri, assecondando il sentire femminile del momento; il suo intento è proprio quello di salvaguardare la casa e la famiglia quali contesti privilegiati per l’educazione, in un momento storico nel quale le nuove esigenze economiche e industriali le avevano messe in secondo piano. L’efficacia del metodo garantisce di fattoì un enorme successo alle Case per Bambini (anche indipendentemente dal progetto originario) e la più famosa pedagogista italiana non smetterà mai, fino alla morte, di dedicarsi anima e corpo a questa moderna trasformazione del concetto di casa.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.