tracce di storia del pensiero educativo: 6.L’ ETA’ MODERNA: LA PEDAGOGIA INCONTRA IL METODO

  1. L’ ETA’ MODERNA: LA PEDAGOGIA INCONTRA IL METODO

 

Il Seicento è il secolo nel quale si affermano gli Stati nazionali (specie Francia, Inghilterra e Olanda) e nel quale si avanza generalmente verso l’assolutismo monarchico; si consolida il sistema coloniale, del quale iniziano ad emergere anche i lati negativi e vengono fondate le compagnie commerciali. L’assetto politico-religioso europeo è sconvolto dalla Guerra dei Trent’anni. Ma il vero cambiamento è quello che riguarda l’ambito culturale: il XVII secolo è infatti l’età della rivoluzione scientifica, legata al metodo matematico e sperimentale e volta a dare un nuovo orientamento sia alla riflessione inerente l’uomo, sia alla ricerca sulla natura, sia al rapporto tra uomo e natura.

La società è in un periodo di particolare sviluppo e l’allargamento del mondo conseguente alle scoperte geografiche porta alla necessità di imparare a sfruttare al meglio le risorse naturali (minerarie e idriche) che consentono l’ampliamento urbano e l’accumulo del capitale economico: ciò significa anche nuove attività artigianali e nuove manifatture, nonché incremento del sistema bancario internazionale. Tutto ciò porta allo sviluppo di una scienza e di conoscenze in grado davvero di penetrare i meccanismi della natura per poter agire su di essa in modo efficace, trasformandola a seconda del bisogno grazie al supporto di abilità e tecniche immediatamente fruibili. È così che sul piano culturale si diffondono nuovi orientamenti di pensiero: pur rimanendo in una prospettiva di vita cristiana, per la quale sia l’uomo che la natura in ultima analisi sono legati alla volontà divina, risulta evidente la necessità di affermare la supremazia dell’uomo proprio sulla natura, per comprenderla e trasformarla a seconda dell’utilità ad essa connessa; il Medioevo, ma anche le spinte di rinascita umanistica del Quattrocento e del Cinquecento, sono superati e – soprattutto questi ultimi – trovano un senso nei due indirizzi di pensiero tra loro apparentemente contrapposti, ma anche inevitabilmente integrati, che prendono il nome di razionalismo e empirismo.

Il Discorso sul metodo pubblicato nel 1637 da Renato Cartesio (1596-1650) è il testo emblematico della corrente razionalista: esso propone un modello di conoscenza e di metodo scientifico per il quale non si deve partire dall’osservazione dell’esperienza per indagare la natura: l’esperienza è percepita attraverso i sensi e perciò può risultare ingannevole e fuorviante; piuttosto, è bene servirsi di strumenti puramente intellettuali, di un principio intelligibile valido in sé da cui dedurre in modo rigoroso (come insegna la matematica, che parte da punti certi e indiscutibili), attraverso un procedimento consequenziale, altri nuclei altrettanto fondati (perché collegati ai primi), in una catena dimostrativa progressiva. Definiti questi parametri, Cartesio va alla ricerca del principio in sé evidente della vita spirituale e intellettiva dell’uomo, trovandolo nella consapevolezza della coscienza che guarda dentro se stessa e mette in atto il movimento del dubitare  – cioè dell’essere una sostanza pensante (cogito ergo sum) – da cui far discendere, anche qui in maniera consequenziali, deduzioni ulteriori che possono spiegare il senso esistenziale dell’uomo stesso e il rapporto tra l’idea innata in esso presente di “essere perfetto” e l’esistenza di Dio – che diventa garante della relazione tra il mondo del pensiero e quella della materia. Cartesio giunge ad una concezione meccanicistica della natura: la natura è una sorta di grande meccanismo regolato da leggi costanti che permettono le relazioni interne e regolano il movimento dei corpi; a queste teorie, da un punto di vista pedagogico, fanno riferimento, da qui in poi, tutte quelle prospettive – specie cattoliche  – che intorno a dei valori certi hanno costruito interpretazioni e percorsi educativi.

L’empirismo si fonda invece sul principio opposto a quello razionalista: l’uomo può avere conoscenze valide della natura solo a partire dall’osservazione diretta, dall’esperienza sensibile del mondo, al di là della metafisica e della religione. Già personaggi del calibro di Leonardo e Copernico avevano percorso questa via, ora sostenuti dal lavoro scientifico di Keplero, Galileo e Newton che trasformano la cosmologia tradizionale appurando la fondatezza scientifica dell’eliocentrismo e quindi sfaldando le idee legate all’aristotelismo e ai concetti tolemaici (per i quali la terra era un corpo immobile al centro dell’universo…) e provocando l’immediata reazione della Chiesa (che si vede minacciata dalle possibili conseguenti implicazioni di questa rivolta culturale).

Portavoce della corrente empiristica è Bacone (1561-1626) che nel Novum Organum del 1620 sostiene una nuova pragmatica concezione della scienza e del sapere, fondata sul metodo induttivo (in opposizione a quello deduttivo cartesiano) e formata: di una pars destruens volta alla consapevolezza e al decondizionamento rispetto agli stereotipi e ai pregiudizi ancora esistenti; e di una pars construens che parte dall’osservazione dell’esperienza, dalla rilevazione dei dati, dalla loro classificazione, dal confronto fra di essi (per questa operazione Bacone costruisce una tavola della presenze e una tavola delle assenze), per arrivare alla formulazione di una legge generale così indotta. Come il razionalismo, anche l’empirismo incontra il pensiero educativo, dando il la a riflessioni teoriche fondate su pratiche dagli obiettivi certi e riscontrabili nella quotidianità (in particolare, come vedremo tra poco, con Comenio e Locke).

 

6.1 Comenio (1592-1670)

Educato all’interno del gruppo religioso dei Fratelli Boemi – gruppo perseguitato durante la guerra dei Trent’anni – Comenio (al secolo: Jan Amos Komensky) viene influenzato sia dall’istruzione ricevuta che dal pensiero di alcuni sui predecessori, Bacone su tutti. Proprio al principio empirista di partire dall’esperienza e dall’osservazione della natura egli fa risalire il suo pensiero pedagogico,  affrontando direttamente il problema dell’educazione e non semplicemente discorrendone a margine di riflessioni politiche o religiose. Guidato dall’esigenza di stabilire nuovi metodi operativi, delinea la necessità di impartire un’educazione universale, offerta a tutti gli uomini di qualsiasi ceto, razza e fede; la sua finalità è quella del raggiungimento della pace universale e della tolleranza reciproca, affinché l’armonia tra gli uomini favorisce la possibilità di ricevere la grazie divina. Perché ciò avvenga bisogna che ogni uomo venga istruito compiutamente e quindi è fondamentale l’impostazione fornita all’istruzione dalla scuola formale: è necessario insegnare agli uomini a guardare il mondo nell’ottica della pansofia (l’insieme di tutti i saperi) e per fare questo si deve considerare le reali possibilità intellettive (e quindi la capacità di apprendimento) tipiche di ogni età, osservando il progressivo sviluppo della natura del bambino, del giovane e dell’uomo; ne consegue un criterio di ciclicità dell’insegnamento che prevede il passaggio del sapere globale prima in forme semplici e via via in forme sempre più complesse e particolareggiate. È bene perciò che vengano presentati elementi di tutto il sapere fin dai primi mesi di vita, perché nessuno debba mai trovarsi davanti ad oggetti culturali sconosciuti, ma sempre ad elementi già noti in quanto già familiari; il tutto, naturalmente, in maniera graduale – come si è detto: dal semplice al complesso. Il metodo da utilizzarsi dovrà essere semplice e facile: qualche nozione teorica, l’esperienza pratica diretta, l’utilità sono i tre passaggi che consentono di apprendere la totalità e di vivere la scuola come un gioco. La scuola in quest’ottica è vista come un preludio alla vita poiché fa parte del suo mandato anche la dimensione relazionale della socializzazione, primo passo verso la concordia reciproca. La scuola integra l’individuo nella società e quindi è bene che sia pubblica così che la comunità intera sia coinvolta nella cura dei sui ragazzi. È una scuola che però inizia nell’infanzia e dura tutta la vita: bisogna dare consigli ai genitori fin da quando il bimbo è nel ventre materno (la madre deve saper intrattenere con lui un bel rapporto), si passa poi alla schola materna fino ai sei anni di età (l’educazione è ancora impartita dai genitori che qui iniziano seminare il germe della pansofia) e a seguire alla schola vernacula in cui viene insegnata la lingua nazionale; dai dodici ai diciotto anni si procede con lo studio delle lingue classiche nella schola latina, insieme alla grammatica, alle scienze naturali, alla matematica e alla fisica, all’etica, alla retorica e alla dialettica, allargando sempre di più il proprio sapere. L’ultimo passaggio, destinato a coloro che sono più capaci, è la schola scholarum, l’Accademia, ossia la scuola che prepara a diventare maestro. Ma il percorso non termina qui, perché anche la maturità e la vecchiaia costituiscono per l’uomo una scuola – quella in cui la scuola è la vita stessa: l’uomo impara per tutta la vita.

È interessante notare come Comenio sia di fatto, nella storia del pensiero pedagogico, il primo a portare una riflessione specifica sugli anni dell’infanzia e della fanciullezza.

 

6.2 John Locke (1632-1704)

Ritenuto il precursore della psicologia scientifica, Locke sottolinea e sviluppa le idee di Comenio in merito all’utilità della conoscenza e degli apprendimenti ai fini della progettazione della propria vita. Egli rinforza le idee empiristiche di Bacone, soffermandosi sul modo in cui si genera la conoscenza nell’uomo: la mente dell’uomo è una tabula rasa su cui si imprimono passivamente delle idee semplici che provengono dalle sensazioni, cioè da ciò che provocano i nostri sensi quando colgono gli oggetti esterni; quindi l’uomo sviluppa la riflessione che gli permette di guardarsi dentro e cogliere altre e diverse sensazioni, così la sua mente si attiva rendendosi sempre più capace di associazioni e collegamenti che trasformano le idee semplici in idee complesse. La presenza educativa è importante perché rappresenta l’intervento che mira a sviluppare nel bambino le “abitudini”, cioè l’attitudine a mettere in atto comportamenti socialmente accettabili: l’educatore deve perciò conoscere (e prestare attenzione a) lo sviluppo dei processi psicologici nel bambino e le sue inclinazioni naturali e dovrà agire inizialmente con autorità e poi, una volta attivato il percorso, con comprensione e amicizia. Meta finale dell’educazione è la virtù, comprendente le già citate abitudini e anche la consapevolezza delle stesse.

Nel suo approccio pedagogico, Locke pensa soprattutto all’educazione del gentleman inglese del suo tempo, il nobile figlio di genitori aristocratici. Per i bambini poveri prevede la creazione delle working schools (di solito all’interno delle parrocchie) dove essi possono essere avviati ad una professione (ma anche nutriti e sostenuti) perché gli viene insegnato un mestiere. Per il giovane nobile invece è preferibile l’insegnamento trasmesso da un precettore (non le scuole o i collegi) che punti alla sua educazione complessiva e che gli permetta di apprendere anche dei lavori manuali con cui passare attivamente il tempo libero; sarebbero poi importanti anche dei viaggi, nei quali si impara a confrontarsi con usanze e costumi differenti, e quindi allargare ulteriormente la conoscenza. I precettori e gli educatori, dal canto loro, dovranno guardarsi dall’infliggere punizioni corporali, puntando piuttosto sul senso dell’onore per mantenere intatta quella disciplina che per Locke è intesa in modo particolarmente rigido. Il bambino è un essere razionale in grado di comprendere, quindi è giusto che venga assecondato, ma anche responsabilizzato a dovere.

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