IL LATO UMANO DELLA MORTE DI DIO

di Emanuele Martignoni

 

Non si tratta qui di far proseliti o di vagliare ciò in cui si crede o non si crede. Questi giorni noti al mondo occidentale come triduo pasquale portano con loro una bellezza latente, intrisa di storia e di mistero. Stiamo ad ascoltare e ad osservare, una volta ancora, il racconto di un uomo assassinato legalmente, con tanto di giustificazioni di quiete religiosa e benestare politico – cose che in realtà, dati gli esiti successivi alla crocifissione, sono andate abbastanza in frantumi. E forse quel che risalta dall’apparente disfatta messianica è proprio il lato umano, squisitamente umano, di tutta la faccenda: vi è una catena di gesti e di attenzioni che sarebbero in grado di scuotere almeno i pensieri, e financo le azioni, della nostra genìa. Gesti e attenzioni che ci arrivano dai resoconti storici, non solo dai testi sacri (legittimi e apocrifi) che li hanno tramandati. Quasi a voler sfatare la lunga cavalcata veterotestamentaria che offre agli occhi del mondo un dio ben lungi dall’essere amorevole e misericordioso, piuttosto molto ben votato ad ordire belliche conquiste e punire in maniera esemplare qualsiasi sgarro più o meno consapevole agito nei suoi confronti oppure a chiudersi in ostinati e ingiustificati silenzi (e la lista si allungherebbe con tutte quelle richieste screanzate cui i suoi fedeli furono forzati: sacrifici di figli, uccisioni di innocenti, lapidazioni di donne, tutto ordinato da questa assai poco paterna entità superiore), il Cristo all’apice della sua missione cambia la prospettiva testimoniando di persona l’accoglienza, la non violenza, la misericordia. A partire da quella carezza amorevole che fu la cena del giovedì: consapevole di essere sull’orlo del baratro e con il vago sospetto di finire ammazzato per via di quei gesti e di quelle attenzioni che aveva predicato per un triennio, scelse di trascorrere il tempo che gli restava con coloro cui voleva bene, di mangiare con loro. Immagino non fosse proprio tranquillo il clima attorno a quel tavolo al quale ognuno dei presenti probabilmente era arrivato con il proprio carico di dubbi e inquietudini e paure; ma abbassandosi ad un’azione di esemplare accoglienza, il nostro Gesù, catino e straccio alla mano, si mise a far via la polvere dai piedi dei discepoli, manco fosse il più infimo della servitù, perché tutti si potessero accomodare fraternamente al banchetto: lasciando a se stesso quindi la parte servile e mettendo tutti gli altri sullo stesso piano di ospiti benvenuti, compresi il traditore e il rinnegatore. Ora, senza voler fare del populismo di basso rango, qualcuno può far presente ai nostri governatori e a gran parte dei prelati contemporanei che magari predicare e agire gesti di accoglienza potrebbe smorzare tensioni e abbattere barriere? Da che mondo è mondo purtroppo, e da duemila anni a questa parte anche a nome di Cristo stesso, la storia di cui continuiamo a non avere memoria ci racconta di guerre e conquiste e brama di potere; occhio e croce, per quel che rimane al cuore e all’anima, val la pena pensare che sia molto meglio mostrarsi disarmati e umili, condividere la propria pagnotta e quel che c’è in tavola, essere silenziosamente superiori alle pretese di giudizio altrui (attitudine questa che il Messia rivelerà splendidamente l’indomani di fronte al sommo sacerdote e al governatore: guarda un po’, l’autorità religiosa e quella politica …) sporcandosi in primis le mani.
E questo fu solo l’inizio. In sequenza ci furono poi la preghiera sincera del Getzemani (momento nel quale ancora una volta siamo di fronte ad un padreterno che ben si guarda dal rispondere), il bacio di Giuda (fraternamente accolto e benignamente redarguito, nonostante si portasse appresso una schiera di soldati armati), l’arresto con tutte le angherie ad esso connesse, frutto dell’incapacità decisionale di Caifa e Pilato, lo sguardo (insieme deluso e amorevole) a Pietro che pur di non essere lui pure ammanettato affermò a gran voce “non lo conosco, non so di che parlate” (in realtà il poveretto voleva solo seguire da vicino il suo maestro e, sanguigno com’era, magari s’inventava pure qualcosa per tirarlo fuori dai guai, non ci è dato saperlo), la corona di spine, il mantello scarlatto, la salvezza di Barabba e, finalmente, il venerdì santo. La croce.
Questa via crucis, questo cammino della croce da Gerusalemme al Golgota (percorso che accomunava tutti i condannati: smettiamo di credere che sia una priorità cristiana, Gesù era certamente in buona compagnia quel giorno) non tardò a divenire un parallelo dell’esistenza, un simbolo legato alla fatica di vivere cui quotidianamente molti uomini sono sottoposti, e il cui esito – per fede e per speranza, o per forza vitale e volontà propria – si spera sia quello della domenica mattina e non quello del venerdì pomeriggio. Quell’uomo solo nei suoi pensieri, forse anche con la sensazione di essere stato abbandonato, silenziosamente porta il suo peso verso la condanna. Cade, si rialza, ricade, si alza ancora. Accetta l’aiuto di un curioso che, come tutti gli altri, era in strada a godersi lo spettacolo (esattamente come la domenica precedente, quella delle palme, in un clima decisamente più festoso). Di certo questa funesta processione deve aver scosso l’animo di molti dei presenti, poiché pare che più d’uno si sia affaccendato per dare un poco di sollievo a Gesù (e speriamo anche a quegli altri) mentre saliva il calvario. Tutte persone che, a fronte di quel che i loro occhi vedevano in quel momento, a ricordo di quel che i loro occhi avevano visto e le loro orecchie udito fino a pochi giorni prima, ad emulare quanto quell’uomo aveva fatto per loro (ed è sempre la storia a tramandarlo, non solo le narrazioni dei vangeli), decisero di prodigarsi ognuno a suo modo per recuperare quel senso di umanità che si era perduto dietro le pretese di buon governo e religiosità dei loro capi. Il gesto della donna che con un velo asciuga il volto martoriato di Cristo ha un non so che di eterno; ci interessa poco sapere se costei fosse una dei discepoli o soltanto una che abitava sulla via di passaggio verso il monte dei dannati: certamente di quel Gesù aveva sentito parlare (era uno che faceva notizia, perciò ancor di più ci stupisce oggi il suo scegliere di praticare gesti umili), magari lo aveva ascoltato direttamente o lo aveva visto, ed ora se lo trovava lì, malconcio, ferito, sanguinante, appesantito da una croce che non si era meritato, e che doveva fare?, poteva essere il suo compagno o un suo figliolo, vuoi non dargli una briciola di conforto?, tanto lo fanno fuori comunque e allora ecco: un panno poteva dargli un attimo di tregua, togliergli dalla faccia la polvere e il sangue e il sudore che bruciavano e provocavano un dolore ancor più grave di quello che già doveva subire. Forse è stato solo un gesto istintivo, senza troppi pensieri intorno, un gesto da madre, un gesto da amante addolorata. Ma per un attimo, un attimo eterno, quel buon Gesù ha respirato un profumo diverso, ha chiuso gli occhi senza essere frustato; magari, per un secondo di quel calvario, ha sorriso. Lassù in cima al Golgota sappiamo bene com’è andata, tra il dolore della madre, quello della Maddalena e quello dei pochi che hanno atteso la fine saltando il pranzo; fra costoro vi erano senz’altro i soldati in turno di servizio, che non avevano nessuna colpa e facevano il lavoro per cui venivano pagati, e fra i soldati il centurione, quello che davanti alla dignità del dolore di Cristo afferma di scorgere una luce divina. Uno, il centurione, che ci azzeccava zero con gli ebrei e con le loro strane storie di spostamenti nel medio oriente sotto la guida un dio che, giusto per tenerli a bada, gli aveva dato dieci leggi scolpite sulla pietra e una città nella quale erigere un tempio (a forza di spada e schiavitù); e ci azzeccava zero anche con Gesù e la sua predicazione, gli bastava che quel popolo testone se ne rimanesse quieto finché doveva svolgere il suo incarico lì. Ma andava a finire che saltava sempre fuori qualcuno a tentare una rivolta e bisognava cacciarlo su una croce. Uno sporco lavoro che qualcuno doveva pur fare. Ma questo Gesù? Per quel che poteva saperne lui, non aveva ammazzato soldati né incendiato postazioni romane, lo seguiva una certa folla, è vero, ma tutta quella gente lui la nutriva, la guariva, la confortava. Ed adesso era lì inchiodato al legno come un qualunque farabutto. A dire parole di speranza anche ai ladri che ha di fianco in questo momento. A morire senza far rumore. In una primavera torrida improvvisamente bagnata da un temporale. A compiacimento di una fragile alleanza tra il sinedrio ebraico e il governatorato imperiale. Da solo. Uno che muore così non può che essere Dio.
Questo Cristo che fino in fondo è coerente a se stesso nei gesti e nelle attenzioni, che suscita anche in chi gli sta intorno gesti e attenzioni e parole di profonda umanità, non può non toccare il cuore. Forse nel corso della vita vestiamo i panni di tutti i personaggi di quei tre giorni che cambiarono il mondo: a volte siamo Cristo, altre Caifa, altre Giuda, altre ancora la donna che asciuga le ferite o il soldato che presidia la crocifissione. Gesù Cristo non fu certo il primo a proporsi quale esempio, né fu l’ultimo a vivere tanto intensamente da meritarsi la morte (è paradossale, non v’è dubbio, ma certi modi di vivere vengono suggellati eternamente dal morire); ma quel che forse oggi abbiamo dimenticato di tutta questa faccenda è la sua umanità – piccole amorevoli attenzioni, date e ricevute, per le quali in fondo val la pena morire.
Quante domande ci si può porre ora: di che cosa è capace l’uomo?, quanta sofferenza conosce?, fino a dove sa sacrificare se stesso per un bene collettivo o superiore?, quanto in basso può scendere nel calvario della vita senza smarrire il divino?
L’ultima riflessione sui giorni santi la cedo a Giuseppe Ungaretti:

PREGHIERA
(1928)

Come dolce prima dell’uomo
Doveva andare il mondo.

L’uomo ne cavò beffe di demòni,
La sua lussuria disse cielo,
La sua illusione decretò creatrice,
Suppose immortale il momento.

La vita gli è di peso enorme
Come liggiù quell’ale d’ape morta
Alla formicola che la trascina.

Da ciò che dura a ciò che passa,
Signore, sogno fermo,
Fa’ che torni a correre un patto.

Oh! rasserena questi figli.

Fa’ che l’uomo torni a sentire
Che, uomo, fino a te salisti
Per l’infinita sofferenza.

Sii la misura, sii il mistero.

Purificante amore,
Fa’ ancora che sia scala di riscatto
La carne ingannatrice.

Vorrei di nuovo udirti dire
Che in te finalmente annullate
Le anime s’uniranno
E lassù formeranno,
Eterna umanità,
Il tuo sonno felice.

 

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