Di calcio e d’irrisolte passioni

di Emanuele Martignoni

Mi sono chiesto tante volte che cosa accenda la scintilla in quasi ogni bambino del mondo, senza differenza di genere, razza, credo e ceto. Non esiste luogo in terra nel quale non vi siano ginocchia sbucciate per rincorrere un pallone, a dispetto di quelle che poi saranno le passioni da grandi, e questo fa del calcio uno dei primi dettami d’universalità: dentro questo gioco, siamo tutti uguali. Ho un ricordo ancora vivo dei palloni spelacchiati che passavano le notti dentro il garage per riposarsi dei sassi del cortile e delle pedate prese nei caldi pomeriggi d’estate o in quelli tiepidi dell’autunno, in quelli freschi di primavera e spesso anche in quelli gelati dell’inverno, perché alla fin fine le scorribande tra le piante non avevano stagioni, non servivano campi ufficiali per fare tornei, ci bastava uno sterrato e un paio di amici e, se non potevano gli amici, le partite me le facevo da solo interpretando le gesta dei miei campioni e reinventando le telecronache nella mia testa. La strada e il cemento dell’oratorio sono stati la prima scuola di vita, oggi il pallone lo porto io così divento importante. Non servivano nemmeno le scarpette “vere”, quelle coi tacchetti – le prime le ho avute che avevo già dodici o tredici anni – ma bastavano quelle sportive un po’ più bruttine, su raccomandazione di mamma, così da non rovinare quelle più belle che si indossavano per andare a scuola. Servivano solo pochi metri quadri all’aperto e quattro felpe a fare i pali; le traverse erano disegnate nell’aria. Eppure, dentro questi momenti semplici e innocenti, sono nate storie che hanno orientato la vita: le amicizie, prima di tutto; ma anche i valori della condivisione e del rispetto, la gioia della vittoria e la nobiltà della sconfitta – questa se vogliamo ancor più edificante, perché non c’era bisogno che qualcuno te la insegnasse, ma la imparavi come un elemento naturale della vita, sapendo che comunque domani avresti giocato una partita nuova con la possibilità di inseguire un altro successo. E così, inevitabilmente, il calcio diventava metafora di quella vita che avremmo vissuto anni dopo: non ci sarebbero stati più palloni e cortili, ma obiettivi di studio, di lavoro. Ci sarebbero state le vittorie e le sconfitte e le rivincite dell’amore. E nelle irrisolte passioni (intese come “partecipazione emotiva” e come “tormento”) che l’esistenza ti ha messo davanti, scopri che sai come viverci e sopravviverci perché te l’avevano insegnato quelle galoppate su campi polverosi ormai perdute nel tempo. Ci sarebbero mille storie da raccontare che si accompagnano a queste radici d’infanzia: storie di campionati e tornei, di goal fatti e sbagliati, di ruoli cercati e inventati, di titolarità e di panchine. Gioie e delusioni e cento altri sentimenti e passioni. Ce n’è una che però vale la pena narrare, e non è una pena, a dispetto del modo di dire della nostra lingua. Ho scoperto, con l’andare degli anni, che il calcio sa essere strumento di redenzione; non parlo ovviamente di qual calcio che vediamo e seguiamo in televisione, quello dei miliardi sparpagliati al vento e degli sponsor che decidono chi è il migliore, per quanto vi sia ancora molto di romantico nel riconoscersi dietro una bandiera di club e, più ancora, di nazione. Parlo di quello sport che, rimanendo un gioco, è capace di portare alla realizzazione di sé persone che sono state ingabbiate, loro malgrado, dalle avversità della vita, persone costrette ad una chiusura esistenziale per via di quei mali invisibili che ottenebrano la salute mentale: da tanti anni ho la fortuna e l’onore – abbiamo la fortuna e l’onore, perché non è un lavoro che svolgo da solo e sono grato a tutti quelli che condividono con me questo percorso – di usare il pallone per aggregare e riabilitare, per dare una speranza. Anche in questo contesto ci sono le vittorie e le sconfitte, ci sono i trofei vinti e le finali perse, c’è lo spirito di competizione, c’è l’aspetto tecnico; ma, sopra e prima di tutto questo, c’è il poter rimettere in gioco le vite di tanti individui che nel calcio, condividendo una passione, ritrovano serenità, amicizia, spirito di gruppo, imparano a raggiungere degli obiettivi, riscoprono che il benessere passa in primis dalla bellezza del divertimento compartecipe e dei valori collettivi. Quelle stesse cose che mi ha insegnato il pallone spelacchiato quand’ero bambino. L’aveva già detto quell’immenso uomo di lettere e cultura che porta il nome di Jorge Luis Borges: “ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio”. Se parliamo di storia, parliamo di vita, parliamo di qualcosa che resta nello scorrere del tempo. Perciò sono grato al calcio e alle sue passioni: perché ancora oggi mi racconta che ci è data la possibilità di colorare di speranza le trame irrisolte della vita.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.